L’incontro a Milano con il vescovo Ambrogio
Agostino mal sopportava di restare a Roma, del resto non più nemmeno capitale dell’Impero, trasferita a Milano. Tra l’altro viveva dei proventi della docenza, ridotti al lumicino data l’abitudine, come già precisato, di parecchie scolaresche di passare ad un altro maestro nel momento di pagare la scuola.
Agostino mal sopportava di restare a Roma, del resto non più nemmeno capitale dell’Impero, trasferita a Milano. Tra l’altro viveva dei proventi della docenza, ridotti al lumicino data l’abitudine, come già precisato, di parecchie scolaresche di passare ad un altro maestro nel momento di pagare la scuola.
Provvidenza volle che dalla capitale venisse una richiesta interessante. L’imperatore richiedeva un maestro di retorica per Milano, capace non solo di insegnare ai giovani, ma anche di scrivere i panegirici nei riguardi del giovanissimo imperatore, Valentiniano II. Ovviamente previo esame molto severo, benché sempre un po’ pilotato. Fu l’occasione d’oro per Agostino. Si esibì in una declamazione. Il prefetto di Roma, simpatizzante per i Manichei, lo segnalò a Milano: “Pertanto in seguito alla richiesta fatta da Milano a Roma presso il prefetto della città (Roma) perché si provvedesse per quella città (Milano) un maestro di retorica, io stesso ho ambito per il tramite di quegli ebbri di vanità manichee, affinché l’allora prefetto Simmaco, dopo l’approvazione, previa una mia declamazione oratoria, mi mandasse là”.
Ancora una volta la Provvidenza tutto aveva predisposto per un nuovo cammino interiore di Agostino, grazie all’impatto con il giovane vescovo di Milano, Ambrogio. Annota Agostino che due furono le ragioni per cui Ambrogio entrò nelle sue simpatie: la benevolenza dimostrata verso di lui e l’arte oratoria. Senza avvedersene, gli entrò in animo, fecondo, anche il contenuto di verità: “E venni a Milano dal vescovo Ambrogio... E cominciai ad amarlo anzitutto non certo in quanto docente di verità, ciò che disperavo ancora di trovare nella Chiesa, ma come un uomo che dimostrava benevolenza nei miei confronti... E mentre aprivo il cuore per afferrare con quanta forbitezza (Ambrogio) parlava, parimenti entrava (in me) quanto diceva nella verità, gradatamente però”.
Interessante ancora una volta la segnalazione fatta da Agostino della presenza anche fisica della madre Monica, ma sempre come in punta di piedi. E dopo tanta sofferenza per il travaglio interiore del figlio Agostino, comincia anche per lei una nuova stagione, appena alle porte però, il distacco di Agostino dal Manicheismo: “Già mi aveva raggiunto mia madre, forte nella sua vita di pietà, seguendomi per terra e per mare in tutti i pericoli, sicura di Te... (mi trovò) non ancora aderente alla verità, ma già strappato alla falsità”.
Per inciso, corre l’occasione per spendere una parola di chiarimento sulla setta filosofico-religiosa del Manicheismo a cui Agostino da 12 anni aderiva. Secondo questa dottrina filosofica la realtà è dicotomica, cioè nettamente divisa in due parti tra loro assolutamente non comunicanti: da una parte il bene, la luce, lo spirito; dall’altra il male, le tenebre, la materia. Realtà in perenne conflitto; ognuna con un principio eterno. Si tratta dunque di una concezione filosofica dualista: da una parte solo e tutto il bene; dall’altra solo e tutto il male.
Interessante il prosieguo della narrazione di Agostino che si rivede, proprio nelle parole di speranza della madre, già incamminato sulla strada della verità: “Mi rispose di credere in Cristo che prima della sua morte mi avrebbe visto divenuto un fedele cattolico”.
Del resto, nell’animo di Agostino, forse anche sollecitato dai discorsi di Ambrogio che volentieri andava ad ascoltare, si insinuano alcuni pensieri molto seri, esistenziali, salutari. Soprattutto il pensiero della morte. E per un certo periodo vi rimane come sospeso, quasi in attesa di qualche nuovo bagliore di luce dall’alto: “La vita è misera; la morte è incerta; sopraggiunge all’improvviso; come svincolarsene?”.
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