Il pelagianesimo visto da Agostino
Da sempre Agostino ebbe in venerazione la Sede apostolica di Pietro e, all’occorrenza vi si appellò, come abbiamo già visto. Ma è soprattutto in riferimento all’eresia del pelagianesimo che Agostino sentì il bisogno e il dovere di fare riferimento e ricorso incalzante alla Sede di Roma...
Da sempre Agostino ebbe in venerazione la Sede apostolica di Pietro e, all’occorrenza vi si appellò, come abbiamo già visto. Ma è soprattutto in riferimento all’eresia del pelagianesimo che Agostino sentì il bisogno e il dovere di fare riferimento e ricorso incalzante alla Sede di Roma. L’eresia pelagiana prende origine e nome dal monaco irlandese Pelagio, il quale, esaltando il libero arbitrio, rifiutava la verità della fede cattolica sulla grazia; l’uomo non ha bisogno di essere salvato da Cristo; si salva da solo.
Verso l’anno 400 giunse a Roma, ove ben presto si trovò tutte le porte aperte. Specialmente quelle dell’aristocrazia romana, in primo luogo delle matrone, di cui divenne indiscussa guida spirituale grazie al fascino che esercitava con la fama della santità austera, della cultura vastissima e dell’intelligenza brillante. Entrò pure nelle grazie del Papa. Pelagio riuscì a trarre nelle sue simpatie anche un avvocato, Celestio, il quale, divenuto monaco, fu il più tenace e solerte propagatore della dottrina pelagiana.
Nel 410, mentre Roma veniva saccheggiata da Alarico, Pelagio e Celestio si rifugiarono in Africa, dove speravano di guadagnare alla loro causa Agostino, incontrato alla sfuggita nel 411 quando però il vescovo di Ippona era troppo impegnato a superare la crisi donatista. Pelagio si ritirò ben presto presso Giovanni di Gerusalemme, di cui godette un’imprudente confidenza e protezione. In un primo momento, Agostino tenne nei loro confronti un rapporto cordiale. Solo nel 412 avvertì con sufficiente chiarezza gli errori di Celestio che confutò nel De peccatorum meritis e nel De spiritu et littera, e quelli di Pelagio, di cui confutò il De natura con il De natura et gratia.
La questione di Pelagio fu dibattuta anche nell’ambiente di Gerusalemme. Nel giugno del 415 fu portata in un sinodo, diretto da Giovanni, vescovo di Gerusalemme: si risolse in un trionfo per Pelagio. Nel dicembre del 415 si riunì un concilio di 14 vescovi a Diospoli, per giudicare Pelagio denunciato da due vescovi della Gallia, Eros d’Arles e Lazzaro d’Aix.
L’ambiguità di Pelagio che poteva vantarsi: «La nostra dottrina, secondo la quale noi abbiamo sostenuto che l’uomo può vivere senza peccato e può facilmente, se lo voglia, osservare i comandamenti di Dio, è stata approvata dal giudizio di 14 vescovi», e l’influenza di Giovanni di Gerusalemme che era favorevole a Pelagio, ottennero il riconoscimento della piena comunione con la Chiesa. Venuti a conoscenza dei fatti di Diospoli, i vescovi africani dell’Africa proconsolare, riuniti in un sinodo a Cartagine nel 416, inviarono a papa Innocenzo I una lettera sinodale, in cui chiedevano la condanna delle dottrine di Pelagio. Il 27 gennaio del 417 Innocenzo I esaminò la questione in un sinodo romano: Pelagio e Celestio furono scomunicati fino alla completa ritrattazione dei loro errori.
Nel marzo del 417 a Innocenzo I successe papa Zosimo, che esaminò il Libellus fidei di Pelagio, già inviato a Innocenzo I. Dall’insieme delle cose il Papa fu indotto non certo ad approvare le idee a loro attribuite, ma a ritenere nella verità Pelagio e Celestio. Zosimo inviò ai vescovi africani due lettere molto dure, nelle quali li rimproverava aspramente di inopportuna precipitazione. I vescovi africani, riunitisi in concilio a Cartagine, scrissero al Papa per avvertirlo dell’astuzia usata dai pelagiani e lo supplicarono di tener fede alle decisioni di Innocenzo I. Finalmente a Roma papa Zosimo condannò Pelagio e Celestio. Il pelagianesimo era ormai in declino. Dopo un tentativo di farlo risorgere compiuto da Giuliano d’Eclano, lentamente, ma inesorabilmente, tramontò. Ma le idee di fondo durano anche nell’oggi.