Condiscepoli di Agostino
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Agostino in comunione di fede e di affetti con la Sede di Roma

Poiché essere in comunione con la Sede di Roma era condizione e garanzia di comunione con la verità, il Vescovo di Ippona fu sempre in comunione con la Cattedra di Pietro e con i papi che vi si sono succeduti. Lo fu anzitutto custodendone e trasmettendone la medesima fede. Inoltre Agostino offerse alla Sede di Pietro la sua collaborazione di teologo di indiscusso valore, al fine di definire con maggior chiarezza e celerità la posizione ambigua ed erronea dei Pelagiani.

Parole chiave: San Agostino (1), Vescovo di Verona (247), mons. Giuseppe Zenti (330)

Poiché essere in comunione con la Sede di Roma era condizione e garanzia di comunione con la verità, il Vescovo di Ippona fu sempre in comunione con la Cattedra di Pietro e con i papi che vi si sono succeduti. Lo fu anzitutto custodendone e trasmettendone la medesima fede. Inoltre Agostino offerse alla Sede di Pietro la sua collaborazione di teologo di indiscusso valore, al fine di definire con maggior chiarezza e celerità la posizione ambigua ed erronea dei Pelagiani. Aveva ragione Girolamo quando scriveva ad Agostino: “Sei reso celebre in tutto il mondo; i cattolici ti venerano e ti accolgono come il fondatore dell’antica fede e, ciò che è segno di maggior gloria, tutti gli eretici ti detestano”.
Certamente si farebbe torto all’episcopato africano se si isolasse Agostino in solitudine aurea. La fede del Vescovo di Ippona era condivisa da tutta la Chiesa cattolica d’Africa e in primo luogo dai suoi vescovi. Tuttavia, se in qualche aspetto Agostino si diversificò da loro ed emerse su di loro, fu il suo modo di rapportarsi con la Sede di Roma, con la quale si mantenne in sintonia di fede e anche di affetti.
La sua comunione con la Sede di Roma, intessuta d’affetti comunionali, risalta ancor più nella sua singolarità, se viene comparata con l’atteggiamento assunto dai vescovi africani nei riguardi delle Santa sede, almeno in due occasioni. Tra papa Zosimo, ad esempio, come abbiamo accennato, e i vescovi africani l’incomprensione raggiunse livelli di guardia, allorché il Papa diede udienza a Pelagio e a Celestio. Riuniti in concilio, infatti, agli inizi del 418, sotto la presidenza di Aurelio, inviarono al Papa una lettera dai toni che sconfinavano con l’arroganza, nella quale gli rinfacciavano di essersi lasciato ammaliare dagli eretici e di averli giudicati favorevolmente con troppa precipitazione, dimenticando gli esempi del suo predecessore Innocenzo I.
S’era appena chiuso il capitolo della tensione con Roma per le questioni concernenti il pelagianesimo, al quale papa Zosimo riconfermò la condanna, e se ne apriva un altro. Riguardava il caso di un certo Apiario, un prete scomunicato dal suo Vescovo di Sicca, per ragioni di indegnità.
Apiario si recò a Roma ed ottenne benevola accoglienza presso papa Zosimo. Le vicende si protrassero nell’ambiguità, fino all’elezione di papa Celestino, il quale accordò ad Apiario la piena comunione ecclesiale. Il caso si risolse solo con la confessione fatta dallo stesso Apiario della sua condotta delittuosa.
La lettera del Sinodo di Cartagine, indirizzata al Papa per quella circostanza, invitava papa Celestino, con un garbo un po’ risentito, a non accogliere più i piagnistei che gli provenivano dall’Africa e a non riammettere nella comunione ecclesiale soggetti da loro scomunicati.
Di tono ben diverso è la lettera con la quale Agostino trattò con la Sede di Roma un caso simile: la scomunica inferta ad Antonio, che le circostanze concorsero a consacrare vescovo di Fussala, su segnalazione dello stesso Vescovo di Ippona. Approfondiremo l’argomento nel prossimo intervento.

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