La musica per il cinema attende adeguata valorizzazione
Il recente concerto di Ennio Morricone in Arena, nonché la rappresentazione alla Scala, in questi giorni, dell’opera Die tote Stadt di Korngold (che fu anche tra i maggiori compositori di musica per film della Hollywood classica) ci spinge ad alcune considerazioni rapsodiche riguardo alla musica per il cinema...
Il recente concerto di Ennio Morricone in Arena, nonché la rappresentazione alla Scala, in questi giorni, dell’opera Die tote Stadt di Korngold (che fu anche tra i maggiori compositori di musica per film della Hollywood classica) ci spinge ad alcune considerazioni rapsodiche riguardo alla musica per il cinema. E l’operazione non è attività fra le più semplici, poiché lo stato dell’arte di questo ambito di studi si trova attualmente lontano da una sistemazione organica ed esauriente. L’abusato termine “multimedialità”, peraltro, invadente anche se essenziale sigla di buona parte del contemporaneo, dovrebbe far sorgere negli studiosi il fertile dubbio che proprio l’incontro di immagine in movimento e musica, all’alba del ’900, possa essere considerato l’atto fondante delle nuove prassi artistiche dello spettacolo, o per lo meno il loro aspetto più innovativo e originale.
Dal Saint-Saëns de L’assassinat du Duc de Guise (1908), al Mascagni di Rapsodia satanica (1917), fino al progetto di Alban Berg per l’inserzione di un breve film muto (accompagnato da un interludio) fra le due scene del II Atto di Lulu, per proseguire con le musiche filmiche ormai classiche dei vari Prokofiev, Shostakovich, Korngold, Ròzsa, Herrmann, Rota, Morricone, la storia della musica del nostro secolo non è avara di risultati cinemusicali di assoluto valore, a testimonianza non solo di una centralità poetica, ma d’una cifra estetica generale che può essere considerata sincretica forma della modernità. È auspicio di molti, quindi, che questo importante settore di ricerca trovi quanto prima la giusta collocazione in un ampio disegno critico e analitico integrato, che coinvolga tutte le arti della rappresentazione e dello spettacolo, e che possa concretizzarsi, ad esempio, in una cospicua attivazione di insegnamenti universitari specifici che siano finalmente attenti anche ad una filologia dell’autore musicale per il cinema.
A proposito di fraintendimenti da correggere, il primo è relativo all’ascendente del commento musicale al film, troppo spesso visto nell’opera lirica e non, correttamente, nel mélodrame ottocentesco, vale a dire quella forma mista di teatro esclusivamente parlato (non cantato!) ma con accompagnamento musicale, di sottofondo o intermezzo, che nacque negli anni ’60 del 1700, per imporsi appunto nel secolo successivo come spettacolo popolare per eccellenza in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. E la dialettica cinemusicale deriva da questa civiltà scenica in via diretta, sin dall’epoca del muto, con musiche scritte appositamente e da eseguire dal vivo, passando per la Hollywood degli anni ’30 e ’40, sino a giungere ai film contemporanei di Sorrentino, di Scorsese o di Tarantino, nei quali sono analoghi modelli musical-drammatici ad agire, secondo coordinate espressive e di rappresentazione che sono passate da civiltà sceniche antiche alla moderna forma cinematografica.
Esiste una differenza strutturale profonda fra mélodrame teatrale e opera lirica, laddove è soprattutto il primo a trasmettere al cinema buona parte dei suoi connotati formali e poetici, sia dal punto di vista narrativo che da quello strettamente musicale. Un equivoco da chiarire, lo speriamo vivamente, per l’ultima volta, affinché non si sia ancora costretti a leggere – in un articolo che preferiamo pietosamente non citare, relativo proprio al concerto veronese di Morricone ricordato in apertura – che “il linguaggio della musica per film deriva direttamente dalle opere di Verdi, Puccini e Wagner”.
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