La vicenda del milite ignoto: una memoria da far rivivere per educare e non dimenticare
È il 28 ottobre 1921. Nella basilica di Aquileia, addobbata a lutto nella sua aristocratica bellezza, undici bare stanno ai piedi dell’altare, allineate come in un picchetto d’onore
È il 28 ottobre 1921. Nella basilica di Aquileia, addobbata a lutto nella sua aristocratica bellezza, undici bare stanno ai piedi dell’altare, allineate come in un picchetto d’onore. Qualche mese prima il Parlamento italiano, all’unanimità, aveva approvato una legge perché un soldato ignoto venisse sepolto a Roma, all’altare della Patria. Quel monumento era stato innalzato nel 1911, per celebrare il Giubileo dei 50 anni dell’Unità d’Italia. Lo avevano chiamato anche Vittoriano, in onore di Vittorio Emanuele II, rappresentato a cavallo nella sua imponente fierezza e considerato il padre della Patria, mettendo in secondo piano i veri padri, quali Mazzini, Garibaldi e Camillo Benso, conte di Cavour e tanti altri.
Se tutti furono concordi nel dare sepoltura a un caduto di cui non si conosceva l’identità, non altrettanto facile fu decidere quali poveri resti scegliere, tra le migliaia che la guerra aveva restituito. Scartate tutte le vittime che avevano qualche piastrina di riconoscimento o di appartenenza militare, si scelsero undici salme tra quei soldati che avevano combattuto prevalentemente sul fronte carsico. Tra loro oltre duemila giovani istriani, goriziani, dalmati, trentini, giuliani nati in territorio austriaco, ma che avevano disertato per combattere a fianco degli italiani. Tra loro anche un certo Antonio, figlio di Maria Maddalena Bergamas, che si era cambiato il nome in Antonio Bontempelli, per evitare ritorsioni alla famiglia, domiciliata a Gradisca, allora in territorio austriaco.
Una vicenda militare che ebbe un triste epilogo il 16 giugno 1916, quando il suo plotone fu annientato da raffiche di mitraglia nemica. A completare lo scempio, un bombardamento al cimitero dove erano stati sepolti i resti dei caduti rese di fatto impossibile dare un volto e un nome a quei poveri corpi.
A guerra finita, quando si trattò di decidere quale milite ignoto si doveva seppellire a Roma, fu chiamata a scegliere Maria Maddalena Bergamas, la mamma di Antonio. Diafana e scolpita in viso con i tratti di una Addolorata, fu portata accanto alle bare. Le consegnarono una rosa bianca. La bara su cui l’avesse lasciata sarebbe stata quella scelta per il viaggio verso l’altare della Patria. Immersa in un bozzolo di dolore, come estraniata a quanto le succedeva intorno, avanzò lentamente. Poi, come rapita da un richiamo di viscere materne, rallentò alla seconda bara. Anziché posare il fiore, si tolse il velo e lo depose come un sudario. Non si impresse nessun volto nelle trame di quei merletti, perché la pietà di una madre era diventata il simbolo di un amore universale, dove nessuno era più escluso. Poi avanzò lentamente fino alla fine, prima di svenire, travolta dal peso dell’emozione.
La bara prescelta fu posta su un treno di undici carrozze, scortato da militari di ogni ordine e grado. Furono centocinquanta le corone che rendevano onore a quei resti, mentre ad ogni città e paese attraversati la gente accorreva in massa gettando fiori e piegandosi sulle ginocchia. A Roma, il 2 novembre 1921, si svolsero i funerali a Santa Maria degli Angeli. Sulla facciata della Basilica vennero riportati questi versi: “Ignoto il nome/ folgora il suo spirito, dovunque è l’Italia./ Con voce di pianto e d’orgoglio/ dicono innumeri madri/ è mio figlio!”.
Il 4 novembre sotto la statua della Dea Roma, la salma venne tumulata tra ali di folla e i vessilli di tutti i Reggimenti, mentre da allora quel giorno viene dichiarato festa nazionale. Un ricordo che rischia di essere sbiadito nell’indifferenza dei più, ma che serve a ricordare che un Paese si ama e si serve soprattutto grazie ai meriti di tanti ignoti, senza targhe e medaglie, se non quella morale del dono di sé, fino all’estremo sacrificio.
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