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San Martino tra carità, predicazione e... tante sagre

di LUIGI FERRARI

L'11 novembre si ricorda il santo di Tour, a cui sono intitolate 20 parrocchie nella Diocesi di Verona

San Martino tra carità, predicazione e... tante sagre

di LUIGI FERRARI

Come per il resto di tutte le feste che si rincorrono nell’anno sia religioso che civile, quella di san Martino non è tra le meno celebrate. Anzi: proprio per il fatto che sembrano alimentarsi l’una con l’altra, le si dà una particolare importanza. Tutto promana da un fatto raccontato da Sulpicio Severo, secondo il quale il giovane soldato Martino – nome imposto dal padre (che era un militare), in onore di Marte –, mosso a pietà nel vedere un pover’uomo sferzato dalla pioggia e intirizzito dal freddo alle porte di Amiens, divise il mantello per dargliene la metà.

Se dovessimo cercare uno che ha messo in pratica il precetto di “vestire gli ignudi”, eccoci serviti. Nato in Pannonia nel 316 (o giù di lì), i genitori nemmeno l’avevano messo in conto che avrebbe intrapreso uno stile di vita e una carriera diversa da quella militare, ma valle a cercare le ragioni. Come si fa a ipotizzare che un bambino a cinque anni abbia già chiaro il progetto di “sognare il deserto”, scegliendo una vita monastica? Crebbe, si tentò con ogni mezzo di distoglierlo da quella “fissa”; a poco o niente servì – una volta diventato quindicenne e costretto da un editto a farsi militare – farlo arrestare e prestare giuramento. L’atto di obbedienza non prevalse sulle sue intenzioni, anche se la carriera era già avviata. Alla vigilia di un conflitto che doveva svolgersi nei pressi Worms, in Renania (nell’attuale Germania), aveva già deciso che non avrebbe messo mano alle armi. Lo disse chiaramente al suo superiore: «Il mio non è un atto di vigliaccheria. Io sono un soldato di Cristo e ciò non mi è possibile». Come andò a finire? Il giorno dopo, non si sa come e perché, la battaglia non si svolse. E lì terminò la sua carriera militare.

Ma il futuro non fu tutto rose e fiori. Nonostante avesse incontrato Ilario, vescovo di Poitier, che lo incoraggiava nella scelta, dovette vedersela con gli ariani che non concedevano una virgola del pensiero di Martino, costringendolo a ritirarsi nella piccola isola ligure di Gallinara, dove trovò solitudine e miseria, unico balsamo che riuscì a placare la sua sete. Poi, la svolta. Re-incontratosi con Ilario e confrontatosi sulla vita monastica, decise di aprire un monastero, ma non uno qualunque: uno fondato con l’intenzione di “aprirsi” al mondo, di educare al Vangelo fuori dai recinti; via, in mezzo alle campagne a sbaragliare (mai con toni violenti) il culto pagano da tempo imperante e quello priscilliano, anche se la monumentale difficoltà di trattare con mille tribù di lingue diverse non era cosa facile. Per questo viene definito il santo che inventò la parrocchia.

Fu grande il successo: una volta rimasto vacante il posto di vescovo, gli abitanti di Tour pretesero che fosse lui a occuparlo: gli tesero perfino una trappola per non farselo scappare, e nel 371 si presentò al popolo festante vestito come uno straccione. Di montarsi la testa nemmeno ci pensava. Se si tenne lontano da sinodi e convegni vescovili, un motivo doveva pur averlo. Ti credo che, una volta preso il biglietto per tornare al Creatore – era l’8 novembre 397 – gli abitanti di Tours e quelli di Poitier si contendessero le spoglie. Con una sorta di (lecito?) tranello, i Turenni si impadronirono della bara, la calarono in un battello sulla Loira e lo portarono a Tours. L’11 novembre celebrarono i funerali.

La sua fama si diffuse e nel corso dei secoli molte delle parrocchie che sorsero presero il suo nome. Nel mondo se ne contano suppergiù 11mila; in Italia, tra parrocchie, paesi e frazioni sono circa 900; nella diocesi di Verona sono 20 le parrocchie a lui intitolate. Lo stesso nome si propagò e, nelle varie declinazioni, venne imposto ai nascituri. Anche la leggenda che la “estate di san Martino” sia la conseguenza del gesto che lo vide autore del taglio della clamide di lana bianca la g’à i puntèi che scrìchiola: le nuvole si sarebbero diradate lasciando posto al sole, che sembra dare l’ultimo colpo di coda a una stagione che con il freddo non aveva niente a che fare. Col cambiamento climatico è difficile che si ripeta, ma chi ha una certa età ricorda più di qualche novembre con la neve e il proverbio: Par i santi ghe vol tabaro e guanti.

Tra i “complimenti” che san Martino si è involontariamente procurato, ve n’è uno che assomiglia ad altri, ma è più schietto (come la birbante che l’ha suggerito): el santo dei traslochi. Non ha torto: ha solo adoperato un termine italiano che vale come far san Martin. È una consuetudine che sta tramontando, ormai, quella che vede i mezzadri abbandonare i campi per mancanza di rincalzi o per la fine del rapporto di fiducia fra le parti. Di sicuro ci sono due cose che perdurano nel suo nome: l’esempio della carità che trascina organizzazioni, associazioni e gruppi di volontariato per togliere un po’ di ruggine all’indifferenza che colpisce chi subisce la povertà, e... la sagra. 

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