Condiscepoli di Agostino
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Tolta la giustizia, i regni sono latrocini

Nei primi cinque libri della Città di Dio Agostino mette a confronto l’apporto dato al progresso della società dal paganesimo, in particolare quello che ha caratterizzato l’Impero Romano, e quello assicurato dal cristianesimo...

Parole chiave: Aforismi (57), Sant'Agostino (190)

Nei primi cinque libri della Città di Dio Agostino mette a confronto l’apporto dato al progresso della società dal paganesimo, in particolare quello che ha caratterizzato l’Impero Romano, e quello assicurato dal cristianesimo. Si chiede se davvero l’Impero Romano poteva attribuire la sua potenza e la sua estensione all’aiuto degli dei. Che benessere era il loro se di fatto era intriso di sangue sparso dalle loro imprese di guerra ovunque? Era comunque un benessere simile ad un cristallo fragilissimo, destinato ad infrangersi da un momento all’altro. E poi si interroga se il potere è meglio che venga affidato ad un ricco, con un patrimonio incalcolabile e pieno di ambizioni, o ad un cittadino di media condizione, che dà prova di pietà e di moralità, di onesti costumi. È facile intuire da che parte si schiera Agostino. Ritiene, infatti, il primo schiavo di tante passioni, che lo sospingono a pensare non al bene della collettività, ma al proprio esclusivo interesse, mentre il secondo, libero interiormente, si dedica al bene comune senza alcun altro obiettivo.
Soprattutto vi si dedica con estremo senso di giustizia. Ed ecco l’aforisma: “Tolta la giustizia, che cosa sono i regni se non dei latrocini? Anche i latrocini, che cosa sono se non dei piccoli regni?” (De civitate Dei, 4,4). Dunque la pratica della giustizia assicurata da chi ha in mano il potere è la garanzia di vero benessere per un popolo intero. Purtroppo, precisa Agostino, tale condizione è alquanto rara per il fatto che chi più chi meno, una volta impossessatosi del potere, qualunque esso sia e di qualunque entità, tende a violare i principi di giustizia. A questo punto, per confermare il suo asserto, Agostino inserisce un aneddoto, venato di ironia. Narra di un incontro tra Alessandro Magno e il capo di una banda di pirati, catturato. Il re gli chiese di esporre la ragione che lo sospingeva ad infestare i mari con le piraterie. Al che il pirata, senza scomporsi, rispose: “Per la stessa ragione per la quale tu infesti il mondo intero. Solo che io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, mentre tu sei considerato un condottiero perché lo fai con una grande flotta” (Ivi). Agostino, estremamente sensibile nei confronti della giustizia, di cui mai smetterà di parlare, ha focalizzato il virus letale per ogni regno: il potere esercitato sul popolo senza scrupoli da parte di governanti per nulla sensibili nei confronti della giustizia sociale. C’è di che riflettere anche ai nostri giorni. A raggio universale.
Mons. Giuseppe Zenti
Vescovo emerito di Verona

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