Inutilità e falsità del culto rivolto agli dei
A che serve venerare gli dei se di fatto né difendono i propri cultori né assicurano loro la felicità? Ecco il pensiero di Agostino...
A che serve venerare gli dei se di fatto né difendono i propri cultori né assicurano loro la felicità? Ecco il pensiero di Agostino: “A proposito di codesti dei, che si offrono all’adorazione o si va in cerca di adorarli perché sia al sicuro la felicità delle cose che scivolano via e passano, che cosa ci risponderanno i difensori (degli dei) nei riguardi della morte dei Saguntini (anche gli abitanti di Sagunto veneravano gli dei)?… Sono venerati senza alcun frutto di felicità” (De civ. Dei, III, 20). E dopo la seconda guerra cartaginese hanno forse mutato comportamento? Scipione, vincitore di Annibale e trionfatore di Cartagine, fu esiliato nella cittadina di Literno dove morì, “poiché i numi di Roma, dai cui templi aveva allontanato Annibale, non lo ricambiarono, quantunque siano onorati solamente in vista di codesta felicità” (De civ. Dei, III, 21). Successivamente, il proconsole Gneo Manlio, vincitore dei Galati, proprio in nome degli dei dell’Asia Minore “introdusse a Roma la dissolutezza asiatica, peggiore di ogni nemico” (Ivi). Una dissolutezza incancrenita dopo la terza guerra cartaginese, con la vittoria di Scipione l’africano. Fu in quel tempo certo assicurato un benessere economico mai visto fino ad allora, ma simultaneamente dilagò la corruzione morale (Cfr. Ivi). I Romani ostentavano le loro ricchezze ovunque si recavano per affari. Tuttavia, Mitridate re del Ponto massacrò una ingente quantità di Romani, mentre si dedicavano agli affari in Asia. E Agostino si chiede se quegli avventurieri di fortune non avessero consultato opportunamente i loro dei, al fine di non cadere in disavventure: “Forse che tutti (quei Romani) avevano disprezzato gli auspici? Non avevano forse gli dei domestici e pubblici da consultare, quando dalle loro case partirono per quel viaggio senza ritorno?” (De civ. Dei, III, 22). Ed ecco l’epoca dei fratelli Gracchi, Caio e Tiberio. Intenti a fare giustizia in favore dei poveri. Ma il progetto di eliminare una ingiustizia inveterata fu la causa della loro uccisione (Cfr. De civ. Dei, III, 24). Nel luogo del massacro dei sostenitori dei Gracchi fu innalzato il tempio alla dea Concordia (Cfr. De civ. Dei, III, 25). Agostino sarcasticamente domanda loro perché non avevano eretto un tempio anche alla dea Discordia (Cfr. Ivi). Seguirono le guerre sociali, servili (con Spartaco) e civili, causando desolazione e spopolamento (Cfr. De civ. Dei, III, 26). E gli dei, pur sempre venerati, perché non le hanno impedite? Merita particolare attenzione la guerra civile tra Mario e Silla, nella quale “fu data libertà agli odi e infierì l’ira sciolta dai freni delle leggi… Le strade, le piazze, i fori, i teatri, i templi nella città stessa erano pieni di cadaveri” (De civ. Dei, III, 27). Crudeltà indegne dei barbari, orribili e indicibili, raccapriccianti, furono compiute da ambo le parti (Cfr. Ivi). Con Silla si introdusse anche la pratica delle proscrizioni e si raffinarono i metodi di vendetta e di uccisione.
A questo punto, Agostino non si trattiene: “Con quale fronte, con quale cuore, con quale impudenza, con quale insipienza o per meglio dire pazzia, non imputano quelle cose ai loro dei, mentre queste (recenti, come la distruzione di Roma) le imputano al nostro Cristo?” (De civ. Dei, III, 30). In realtà “Cristo è nato sotto l’impero di Cesare Ottaviano Augusto” (Ivi). Non poteva essere colpevole dei precedenti disastri di Roma. Agostino non poteva più tacere ciò che portava in cuore: “Coloro che sono ingrati nei confronti di Cristo dei suoi tanto grandi beni, accusino i loro dei di così grandi mali” (De civ. Dei, III, 31). Eppure, “quando accadevano quei mali gli altari dei numi profumavano di incenso d’Arabia e olezzavano di fresche ghirlande” (Ivi). Agostino fa il confronto tra il comportamento di Cicerone mentre era inseguito a morte e quello dei Romani con quanto era accaduto a Roma con l’invasione di Alarico. Mentre Cicerone, braccato a morte da un sicario di Antonio, non cercò rifugio in un tempio, questi Romani si rifugiarono nei templi cristiani per salvarsi dalle stragi dei barbari di Alarico. E, continua, non rinfacciano questi mali ai loro dei, di cui vogliono ristabilito il culto (Cfr. Ivi).
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento