L‘eterna beatitudine e il libero arbitrio
Agostino avvia il libro XXII de La città di Dio focalizzando subito il tema che fa da nucleo essenziale e da criterio ermeneutico: “la Beatitudine eterna!” (De civ. Dei, XXII, 1.1)
Agostino avvia il libro XXII de La città di Dio focalizzando subito il tema che fa da nucleo essenziale e da criterio ermeneutico: “la Beatitudine eterna!” (De civ. Dei, XXII, 1.1). Eternità, precisa Agostino, non equivale ad un permanente ritorno di primavere quando le piante si rivestono di nuove fronde in continuazione (Cfr. Ivi). Le cose stanno diversamente per i salvati: “In essa (nella città di Dio) tutti i cittadini saranno immortali, perché anche gli uomini conseguiranno ciò che gli angeli santi non hanno mai perduto. Lo farà l’onnipotentissimo Dio suo creatore. Lo ha promesso infatti e non può mentire” (Ivi). Tutto dunque è partito dall’atto creativo di Dio: “È Lui stesso (Dio), infatti, che in principio ha creato il mondo, pieno di tutti i beni visibili e di realtà intellegibili. In esso nulla di meglio ha istituito degli esseri spirituali. Ha dato loro l’intelligenza. Li ha resi abili alla contemplazione di Lui e capaci di Lui. E li ha vincolati in una società, che diciamo santa e superna, nella quale le cose sono conservate in esistenza e si è beati. Dio stesso è per loro come vita e cibo comune” (De civ. Dei, XXII, 1.2).
Ma l’approdo della propria esistenza dipende dall’uso del libero arbitrio, che Dio non ha tolto a nessuno, pur prevedendo il fallimento di una vita in situazione di inferno, giudicando piuttosto che fosse espressione di maggior potenza e che fosse meglio anche dai mali far derivare del bene piuttosto che non permettere i mali: “A questa natura intellettuale ha donato tale libero arbitrio che, se l’uomo con il suo libero arbitrio volesse abbandonare Dio, cioè la propria beatitudine, ne seguirebbe immediatamente la miseria. Preconosceva di certo che alcuni angeli per superbia, mediante la quale essi stessi volevano essere sufficienti a se stessi per una vita beata, sarebbero stati futuri disertori di un così grande bene. Eppure, non tolse loro questo potere, giudicando piuttosto che fosse espressione di maggior potenza e che fosse meglio anche dai mali fare del bene piuttosto che non permettere i mali. In effetti essi certamente non esisterebbero, se la natura mutabile, per quanto buona e creata dal sommo Dio e incommutabile bene, che ha creato buone tutte le cose, da se stessa non se li fosse fatti, una volta introdotti con il suo peccare” (Ivi). Agostino chiarisce il fatto che proprio l’infelicità dell’uomo peccatore attesta la bontà della creazione in se stessa (Cfr. Ivi). Proprio l’abbandonare Dio corrisponde all’infelicità dell’uomo come l’abbandono della sorgente della luce fa sperimentare il senso della cecità: “la cecità non è difetto dell’occhio, e proprio questo dimostra che l’occhio è stato creato per vedere la luce e per questo con lo stesso suo difetto si mostra alle altre membra in modo ancor più sublime come il membro capace di luce… Allo stesso modo una natura che godeva di Dio, con il suo stesso difetto, per cui è misera in quanto non fruisce di Dio, sta ad insegnare che è stata istituita ottima” (Ivi). Dio ha punito gli angeli ribelli con una eterna afflizione, mentre ha premiato la fedeltà degli altri angeli (Cfr. Ivi). Conclude: “Egli (Dio) ha fatto l’uomo e, per di più, retto con il medesimo libero arbitrio; di certo animale terreno, ma degno del cielo, se rimaneva unito al suo autore” (Ivi).
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