Il peccato originale e la genesi delle due città
Nel nostro percorso di scoperta de La città di Dio di Agostino siamo arrivati alla conclusione della terza sezione, cioè al libro quattordicesimo
Nel nostro percorso di scoperta de La città di Dio di Agostino siamo arrivati alla conclusione della terza sezione, cioè al libro quattordicesimo. Un grande libro. Chiarisce anzitutto la condizione dell’uomo prima e dopo il peccato originale e si immerge nella genesi delle due città. Imposta le tematiche sul vivere secondo lo Spirito o secondo la carne, con riferimenti biblici e filosofici (stoici, epicurei, platonici). Analizza il valore della volontà e dell’amore. Approfondisce il senso di quattro passioni fondamentali: desiderio e gioia; timore e tristezza, applicate alla condizione dell’uomo dopo il peccato originale. Tra le passioni disordinate esamina soprattutto la libidine. Ma fa splendere su tutto la divina Provvidenza. Infine definisce l’abissale differenza tra le due città, originate dal libero arbitrio, quella terrena da un libero arbitrio dominato dalla superbia, quella celeste dal libero arbitrio ispirato dall’umiltà.
La radice velenosa della morte è il peccato originale che ha mutato in peggio la natura umana, trasmettendo alla progenie l’ipoteca della marcata inclinazione al peccato e della necessità della morte. Di qui l’origine delle due città: quella secondo la carne e quella secondo lo Spirito.
Agostino avvia il libro quattordicesimo de La città di Dio richiamando la sua tesi del monogenismo, l’origine cioè dell’umanità “da un solo uomo, non solo per far associare il genere umano nella similitudine della natura, ma anche per una certa necessità in vista della concorde unità nel vincolo della pace” (De civ. Dei, XIV, 1). E prosegue: “Questo genere (umano) non sarebbe morto in ciascuno dei singoli se i due primi, dei quali uno (Adamo) è stato creato dal nulla, l’altra (Eva) da quello, non lo avessero meritato per disobbedienza. Da essi infatti fu commesso un così grande peccato che la natura umana a causa loro fu mutata in peggio, essendo stata trasmessa anche nei posteri l’ipoteca del peccato e la necessità della morte… E per questo è avvenuto… che esistessero in qualche modo due generi di umana società, che secondo le nostre Scritture possiamo meritatamente chiamare due città. Una senza dubbio è degli uomini che vogliono vivere secondo la carne; l’altra è degli uomini che vogliono vivere secondo lo Spirito” (Ivi).
Gli epicurei, ad esempio, vivono secondo la carne “perché hanno riposto il bene sommo dell’uomo nel piacere sensibile” (De civ. Dei, XIV, 2.1). Anche gli stoici, pur riponendo il sommo bene nell’animo, in realtà vivono secondo la carne (Cfr. Ivi). In effetti, precisa Agostino, tra le opere della carne “non troviamo soltanto quelle che riguardano il piacere della carne, come fornicazioni, impurità, lussuria, ubriachezze, gozzoviglie, ma anche quei pervertimenti dell’animo che si presentano privi dal piacere della carne. Ognuno capisce che idolatria, malefizi, inimicizie, discordie, rivalità, animosità, litigi, fazioni, invidie sono più pervertimenti dell’animo che della carne” (De civ. Dei, XIV, 2.2). E prosegue: “non tutti i vizi della vita immorale vanno attribuiti alla carne” (De civ. Dei, XIV, 3.2). Il diavolo stesso, che non ha carne, è istigatore di ogni vizio, legato alla carne o all’anima: “sommamente superbo e invidioso” (Ivi), destinato per colpa sua “al supplizio eterno in un carcere dall’atmosfera caliginosa” (Ivi). Agostino riporta un testo della lettera di Paolo ai Galati: “Dice infatti l’apostolo (Paolo) che le inimicizie, le contese, le rivalità, le animosità, le invidie sono opere della carne; di tutti questi mali capo e origine è la superbia… Infatti non per il fatto di avere la carne, che non ha il diavolo, ma vivendo secondo se stesso cioè secondo l’uomo, l’uomo si è fatto simile al diavolo, perché anche lui ha voluto vivere secondo se stesso, quando non stette nella verità al punto da proferire menzogna non dalla verità di Dio, ma traendo dal suo che non solo è mendace ma anche padre della menzogna” (Ivi).
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