Agostino prigioniero di una turpe adolescenza
A distanza di quasi trent’anni dai fatti narrati e dalle esperienze vissute, Agostino confessa a Dio lo scatenamento delle sue passioni durante l’adolescenza. In particolare l’incontenibile smania del piacere, che definisce libidine sessuale. Ricorda le vane esortazioni di sua madre Monica ad essere pudico e le sue avventure con il suo “branco” che lo costringeva a farsi bullo con loro fino a raccontare fatti inventati pur di non sfigurare...
A distanza di quasi trent’anni dai fatti narrati e dalle esperienze vissute, Agostino confessa a Dio lo scatenamento delle sue passioni durante l’adolescenza. In particolare l’incontenibile smania del piacere, che definisce libidine sessuale. Ricorda le vane esortazioni di sua madre Monica ad essere pudico e le sue avventure con il suo “branco” che lo costringeva a farsi bullo con loro fino a raccontare fatti inventati pur di non sfigurare. Ecco un tratto significativo: “Lei (la madre Monica) voleva, e in cuor mio ricordo che mi ammoniva con forte sollecitudine, che io non fornicassi e soprattutto che non commettessi adulterio con una donna sposata. Questi ammonimenti mi sembravano da donne... andavo in precipizio con una così grande cecità che tra i miei coetanei mi vergognavo di essere di minor spudoratezza, poiché li udivo vantarsi delle loro azioni vergognose e tanto più si gloriavano quanto più erano turpi e mi piaceva fare (come loro) non solo per la libidine del fare ma anche per esserne lodato. Pertanto, per non essere vituperato, diventavo più vizioso e quando non era subentrato in me qualche cosa di commesso con cui potessi essere eguagliato a quei corrotti, fingevo di aver fatto ciò che non avevo fatto, per non sembrare più abietto quanto più ero innocente e non fossi ritenuto più vile quanto più ero casto”.
Rivedendosi nel periodo dell’adolescenza si vede macchiato di un furto banale di pere, compiuto non per necessità, ma per il gusto di fare del male: “Ed io ho voluto fare un furto, e lo feci senza esservi sospinto da alcun bisogno se non dalla scarsità e dall’insofferenza della giustizia e dalla pinguedine dell’iniquità. Infatti ho rubato ciò che avevo in abbondanza e di molto migliore e non volevo fruire di quelle pere che desideravo oggetto di furto, ma per il gusto del furto e del peccato. Nelle vicinanze del nostro podere vi era un albero di pere carico di frutti per nulla attraenti né per bellezza né per sapore. Da malvagi adolescenti giungemmo a notte fonda a scuotere (quell’albero) e a portar via (i frutti), fino a quando avevamo protratto il gioco secondo la modalità della malvagità in piazza e ne abbiamo portati via una ingente quantità, non per un nostro banchetto, ma addirittura per buttarli ai porci... Che cosa dunque ho amato in te, o mio furto, o notturna azione malvagia del mio sedicesimo anno di età? Ne avevo in abbondanza di migliori; quelle (pere) invece le ho staccate soltanto per (il gusto di) rubare... Che cosa dunque ho amato io in quel furto? O putredine, o mostruosità di una vita e profondità di morte! Ciò che non mi era lecito ha potuto piacermi, non per altro motivo se non perché non era lecito?”. E, sempre rievocando quel furto, Agostino fa due osservazioni interessanti. Anzitutto il fatto che è stata la compagnia a trascinarlo in quell’azione malvagia. In secondo luogo, precisa che proprio in una compagnia di malvagi si è costretti a vivere da malvagi, vergognandosi persino di essere buoni: “E tuttavia da solo non l’avrei fatto – così ricordo il mio stato d’animo di allora – da solo non l’avrei assolutamente fatto. Pertanto lì ho amato anche la compagnia di coloro con i quali l’ho compiuto … Ma poiché in quei frutti non ci provavo alcun piacere, il piacere stava nello stesso misfatto e nel fatto che lo faceva una compagnia che simultaneamente peccava... Da solo non avrei fatto quel furto nel quale non mi procurava piacere ciò che rubavo, ma il fatto che rubavo: e di sicuro non mi sarebbe piaciuto di farlo e non l’avrei fatto. O amicizia troppo nemica, seduzione inspiegabile della mente; avidità di far del male per gioco e per scherzo; forte desiderio di danneggiare gli altri, senza alcun vantaggio per me... e ci si vergogna di non essere inverecondi”.
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