Mons. Roveggio, l’erede di S. Comboni
Giancarlo Volpato
Antonio M. Roveggio.
Instancabile erede
di Comboni (1858-1902)
Casa Editrice Mazziana
pagg. 796 - 36,50 euro
Erano passati sei anni dalla scomparsa di mons. Daniele Comboni, il celebre vescovo missionario canonizzato da san Giovanni Paolo II nel 2003, quando, alla fine di ottobre del 1887, nella cappella dell’Istituto comboniano di Verona, si svolse una cerimonia particolarmente toccante e significativa: dieci giovani emisero i voti di povertà, castità e obbedienza, diventando così il primo nucleo di quella congregazione di religiosi-missionari che vollero ispirarsi alla splendida testimonianza del prelato missionario, nato a Limone sul Garda nel 1831 e morto a Khartoum, nel cuore dell’Africa, nel 1881.
Tra quei giovani ve n’era uno di 29 anni, già ordinato prete: si chiamava Antonio Maria Roveggio ed era originario di Cologna Veneta. La sua vita, al pari di quella di Comboni, sarà breve e tutta spesa per annunciare Cristo: anch’egli morirà in Africa a soli 43 anni, stremato dalle fatiche e dalla malattia. Un’esistenza breve, dunque, ma di straordinaria intensità, come mostra con chiarezza l’ampio e interessantissimo volume a lui recentemente dedicato da Giancarlo Volpato, che ha ricostruito alla perfezione la vita di quest’uomo che fin da giovanissimo avvertì la chiamata a partire per la missione, cosa che realizzò alla vigilia della festa dell’Immacolata del 1887, dirigendosi verso l’Egitto, ove si mise subito al servizio della Chiesa e della gente del luogo.
Nella prima parte del libro, l’autore prende in considerazione le origini di Roveggio e la sua formazione al sacerdozio, nella seconda si sofferma sulla sua vocazione di missionario comboniano, mentre nella terza e nella quarta ne ricostruisce con grande accuratezza la feconda presenza in terra africana.
A Verona, nel 1895, Roveggio fu consacrato vescovo, dopo il ritiro di mons. Sogaro che era stato il primo successore di Comboni. Ben presto, tuttavia, il giovane prelato volle tornare in Africa: il suo cuore generoso batteva per la missione e in missione egli morì. Scrive a questo riguardo Volpato: “Egli era caduto combattendo la sua buona battaglia; non aveva avuto il martirio – che aveva cercato sin da giovane novizio – ma su quel campo soccombette come un martire”. Padre Ottone Huber, che fu vicino a Roveggio negli ultimi giorni, lo descrive nei termini seguenti: “Egli era troppo santo... Viveva in questo mondo senza essere di questo mondo”. È in corso la causa della sua beatificazione.