Lo scudetto al Napoli è vittoria della città non solo dello sport
Ora che cala il sipario su questo campionato di calcio ’22-’23, a far clamore sono ancora le voci, i suoni, il caos gioioso, la fantasia scoppiettante di una Napoli che festeggia il suo terzo scudetto. Un avvenimento che merita qualche riflessione...
Ora che cala il sipario su questo campionato di calcio ’22-’23, a far clamore sono ancora le voci, i suoni, il caos gioioso, la fantasia scoppiettante di una Napoli che festeggia il suo terzo scudetto. Un avvenimento che merita qualche riflessione, oltre il giusto apprezzamento di una vittoria strameritata. Perché Napoli, che piaccia o meno, ha qualcosa di più e di diverso dalle altre città d’Italia. E non a caso, la certezza del primato, arrivata qualche settimana prima della fine del campionato, ha visto la televisione dare l’informazione, come prima notizia nei telegiornali, con un’enfasi degna di avvenimenti di rilevanza mondiale.
Sono contento per la squadra del Napoli, nonostante l’antipatia del suo presidente, la cui supponenza attinge dalla borghesia romana che lo ha cresciuto col biberon dei privilegi. Sono contento per i napoletani, la cui simpatia e fantasia sembrano scaturire da un caleidoscopio di colori sempre in movimento. Sono contento per la città di Napoli diventata, per questi giorni di festa, la nuova capitale del Sud, quella capitale, detto senza rimpianti, che fu nel tempo, prima che l’unità d’Italia la relegasse a capoluogo di Regione e forse, nell’immaginario collettivo, città della periferia, identificandola con quel Sud ricco di magagne e di non poche ombre.
In realtà Napoli è una capitale o, se volete, l’ombelico del Mediterraneo. Qui nei secoli fu un andare e venire di genti, un miscuglio di storie, di passioni, di arrivi e di addii. Gioie che sono trascolorate nella malinconia e nel pianto e di cui Lucio Dalla ci ha consegnato una pagina struggente nella sua Caruso. E sono questi sentimenti che scorrono nelle sue strette vie, brulicanti di persone e di personaggi, di scugnizzi e di impomatati aristocratici, a risvegliare profumi di umanità, come non si sentono più altrove, come se fossero improvvisamente sparite le botteghe del pane, con il loro sentire di buono. I napoletani possono essere amati o detestati, ma non si può negare loro di essere ancora tra i pochi capaci di seminare intorno voglia di stare insieme e di fare festa.
Scaltri, come chi la vita ha istruito per sopravvivere, e accoglienti, come chi ha imparato che nessuna terra è mai sicura, così da essere considerata monopolio di qualcuno o di pochi.
C’è grande amore, a Napoli, per il suo protettore. E non si pensi soltanto a san Gennaro, perché san… Maradona non è da meno. Retaggio culturale e non soltanto superstiziosa e opportunistica attitudine a cercare aiuto dall’alto. È la cultura greca, quella che faceva degli eroi dei semidei, a ispirare il bisogno di protettori, impregnando la cultura di santi e reliquie, come in poche altre parti del mondo. E i semidei girano ancora nella città, oggi come un tempo, a ridare speranza, ad accendere l’emulazione, a nascondere per un giorno le fatiche del quotidiano. Eroi come bandiere da appendere come lenzuola stese da una finestra all’altra, drappi di benvenuto per indicare che lì la festa è sempre pronta a incominciare.
Manca, e penso soprattutto a noi del Nord, un po’ di Napoli che ci aiuti ad uscire dai binari di una compostezza che spesso sa di abitudine. Da una frenesia convulsa che nasconde l’affarismo. Da un ordine formale che sa un po’ di prigionia e qualche volta di formalismo di facciata. E allora viva Napoli e che la festa continui!
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