In Maurizio Costanzo la sintesi di una Tv che non c’è più
Scrivevo poco tempo fa su queste stesse pagine che la politica non è tutto, ma tutto è politica. La morte di Maurizio Costanzo ha portato in primo piano la verità di questa affermazione, pensando a quanto la sua capacità di comunicare ha influito sul costume del nostro Paese...
Scrivevo poco tempo fa su queste stesse pagine che la politica non è tutto, ma tutto è politica. La morte di Maurizio Costanzo ha portato in primo piano la verità di questa affermazione, pensando a quanto la sua capacità di comunicare ha influito sul costume del nostro Paese. Se è convinzione diffusa che Porta a porta sia la terza Camera, ritengo che Costanzo sia stato la coscienza militante di una Nazione che andava a ripensarsi nei tempi del post cristiano.
Sono passati tanti anni da quando mi invitò per la prima volta al suo show. Ci arrivai intimorito. Ma fu molto cordiale nel mettermi a mio agio. Lo sguardo indagatore era mitigato dalla paciosa bonomia del suo modo di fare, dal tono di voce felpato, da un fisico che ne faceva di fatto un anti-divo. Eppure non era difficile intuire, oltre la scorza, il guizzo di una lucida razionalità e tanta ironia. Ci annusammo. Due cose mi colpirono da subito. La prima era il fatto che lui volesse sdoganare quella cultura radicale che consentisse a tutti di essere e di fare quello che meglio aggradava loro. Erano sempre temi di frontiera. Sul palco si parlava di eutanasia, di aborto, di transessuali, gay, lesbiche. Di tutto e di più. Si sapeva dove voleva andare, ma lo faceva con un metodo inappuntabile, dando voce al pluralismo dei pareri. Lui dava a tutti la possibilità di argomentare. Poi spettava a te cercare di batterti, evitando di fare la figura del cotechino. Se mai dovessi fare un appunto, nel merito, quello non lo farei a Costanzo, ma alla Chiesa che, nel tempo, non sempre ha attrezzato alcuni dei suoi, anche con una rigorosa selezione e preparazione, ad essere all’altezza del gioco mediatico che veniva avanti e che ancora ci sfida.
La seconda cosa a colpirmi non riguardava la sostanza, ma il metodo con cui conduceva i suoi programmi. Il confronto non passava mai dai colori pastello, ma doveva avere i toni duri dei colori decisi, o bianco o nero. Spesso era la rissa a far capolino, ma nulla a vedere con le risse da pollaio della Tv contemporanea. Costanzo amava lo scontro. Era il pepe sul piatto, ma a differenza di ciò che accade oggi in troppi salotti, era uno scontro tra intelligenze e non tra umori e nevrosi come ci capita di vedere. Non potrò mai dimenticare una puntata con un personaggio che imparai da subito a stimare per la sua intelligenza e la sua ricchezza di umanità. Era Platinette. Fui subito intimorito dalla sua mole, da quella parrucca che da sola copriva metà del mio corpo. Da copione avremmo dovuto scontrarci. Poi cominciammo a parlare e scoprimmo che la nostra umanità ce lo impediva. Ricordo Maurizio Costanzo che alle spalle mi diceva: «E dajé». Andò invece che quella puntata fu il momento in cui Platinette raccontò il suo cuore consegnandoci la verità di un grande animo.
Ho rivisto Costanzo non molto tempo fa in Rai. Mi è venuto incontro riservandomi una cordialità inaspettata. «Mi ricordo la sua compostezza e la sua eleganza», furono le parole con le quali volle gratificarmi. Scambiammo poche frasi. Poi mi confidò che aveva un dispiacere per aver insistito su un tema, venduto come scelta di libertà, ma che realmente non lo era. E mi confidò il perché. Aveva lo sguardo rivolto in basso, ma aveva aperto la finestra della coscienza. Oltre il professionista, vidi l’uomo. Forse anche il cristiano. Un figlio di Dio comunque.
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