Il “diritto al suicidio” che dal Festival cerca di farsi spazio
Non sono un cinefilo. Penso che andare al cinema sia cosa da fare in compagnia. Andarci da soli mi sembra un’inconscia forma di evasione dalla solitudine...
Non sono un cinefilo. Penso che andare al cinema sia cosa da fare in compagnia. Andarci da soli mi sembra un’inconscia forma di evasione dalla solitudine. È vero che un film si potrebbe sempre guardare da soli a casa. Ma qui intervengono due fattori a minare le migliori intenzioni. Il primo è che, a meno di avere canali a pagamento dove danno programmi di una certa qualità, i film che vengono trasmessi dalla tivù sono spesso di una penosa mediocrità. Il secondo fattore, non so se legato all’età, riguarda il potere soporifero della televisione. Bastano solo pochi minuti per cadere dalla poltrona in un sonno ristoratore, propedeutico a due preghiere prima di trovare seguito in quello più comodo, sotto le lenzuola.
Dei film, a parte qualche eccezione, conosco più ciò che leggo di ciò che vedo. So che a Venezia quest’anno, per la Mostra del Cinema, Alberto Barbera (direttore artistico della rassegna) ha messo in piedi un parterre de rois, un pubblico di ospiti di prima classe, con divi del cinema e protagonisti di quel mondo, tanti e tali da offuscare il Festival di Cannes. A dargli carta bianca il nuovo presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, finissimo intellettuale che conosco e stimo, da poco nominato in questo ruolo. Buttafuoco è persona di straordinaria cultura e sensibilità, anche religiosa, da qualche anno “ritornato” all’islam, come ci tiene a precisare lui, evitando la parola conversione, con il nome di Jiafar Al Siqili. Lui parla di ritorno perché, da siciliano qual è, fa riferimento ai tempi in cui moltissimi in Sicilia praticavano quella religione. Sarà.
Del film premiato col Leone d’oro conosco quanto ho letto dai giornali. Gli allibratori lo davano vincente in partenza. Dalla sua giocava il nome del regista, quel Pedro Almodovar, che da solo è moneta pesante nel mondo della cinematografia. In secondo luogo a favore c’era il tema proposto dal film, ossia l’eutanasia (ma sarebbe più corretto parlare di suicidio). The room of the next door, la stanza della porta accanto, racconta la vicenda di due donne, una delle quali chiede all’altra di starle vicina (in realtà nella stanza accanto) mentre prende la pillola per suicidarsi. L’amica è rigorosamente nella stanza accanto, perché la decisione di morire è un atto politico, libero e individuale, che non ha bisogno di alcuno che interferisca nella scelta. Né Dio, né la politica, né alcuno. Del resto, lo ha dichiarato lo stesso regista al momento della premiazione. L’eutanasia, ha detto, è un diritto personale che non ha bisogno del riconoscimento di nessuna legge.
Senza impancarsi con inutili moralismi, a tutti dovrebbe essere chiara la differenza tra il diritto a disporre della propria vita quando questa sia di fatto diventata invivibile e le cure inutili, evitando l’accanimento terapeutico, da quello che è il diritto al suicidio, rivendicato come espressione massima di libertà.
L’arte di togliersi la vita è una tra le più praticate e ricche di fantasia creativa, ma nessuno può credere che la scelta di suicidarsi sia l’espressione di un diritto e una conquista di civiltà, tanto più se a ispirarla non sia la disperazione del vivere, ma la titanica solitaria coscienza di essere padroni assoluti della propria esistenza, disponendone a proprio piacimento.
Sappiamo quanto il mondo mediatico influisca nel diffondere una cultura nichilista, portando a confondere il politicamente corretto con il bene. Sta ai cristiani il coraggioso e solitario compito di essere nel mondo senza appartenere alle sue logiche, accettando anche di adempiere il ruolo di minoranza profetica per affermare il valore sacro della vita, dentro il nulla di un paganesimo senza speranza.
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