Il Fatto di Bruno Fasani
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Quella presunta falsa civiltà con la maschera da morto

Il viaggio, l’ultimo, del dj Fabo si è concluso in Svizzera lunedì scorso. Sul navigatore, preso come metafora, l’arrivo era segnato da una siringa letale. Fabiano Antoniani, questo il nome all’anagrafe, aveva 40 anni ed era considerato una star delle radio e delle discoteche. Poi tre anni fa il terribile incidente, che lo inchioda a una carrozzella oltre a renderlo completamente cieco. Si sentiva prigioniero in una gabbia senza uscite. Da qui l’appello di un mese fa al presidente Mattarella, tramite la compagna: «Voglio morire. Lasciatemi morire»...

Parole chiave: Dj Fabo (1), Il Fatto (439), Bruno Fasani (348), Eutanasia (2)

Il viaggio, l’ultimo, del dj Fabo si è concluso in Svizzera lunedì scorso. Sul navigatore, preso come metafora, l’arrivo era segnato da una siringa letale. Fabiano Antoniani, questo il nome all’anagrafe, aveva 40 anni ed era considerato una star delle radio e delle discoteche. Poi tre anni fa il terribile incidente, che lo inchioda a una carrozzella oltre a renderlo completamente cieco. Si sentiva prigioniero in una gabbia senza uscite. Da qui l’appello di un mese fa al presidente Mattarella, tramite la compagna: «Voglio morire. Lasciatemi morire».
Mi astengo dall’esprimere qualsiasi giudizio sulla scelta di questo fratello. Il dolore è sempre un fatto molto soggettivo, cosi come gli anticorpi con cui lo si fronteggia. Conosco amici che nel dolore ti succhiano come una carta assorbente e altri che si chiudono a riccio, fino alla scontrosità. Se a tutti è chiesto di fermarsi in silenzio e in punta di piedi davanti alla coscienza, non per questo dobbiamo tacere dal chiamare i fatti col loro nome. E in questo caso la morte di Fabo ha un nome preciso: omicidio.
Nei giorni scorsi abbiamo sentito ripetutamente parlare dell’urgenza di introdurre una legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, meglio note come testamento biologico, ossia la possibilità di disporre della propria vita nella sua fase terminale o in situazioni gravemente invalidanti. Ma proprio il caso di Fabo, con la corte di sacerdoti e chierichetti che strumentalmente hanno cavalcato la sua storia per portare a casa il bottino di una legge pro eutanasia, è qui a testimoniare quale ambiguità si nasconda dietro la blanda dicitura di testamento biologico. Far conoscere la propria volontà, dichiarando di non desiderare accanimento terapeutico, sperimentazioni di farmaci prolunganti la sofferenza, rifiuto di macchinari per tenere in vita artificialmente una persona, è cosa diversa dall’iniettargli in vena una dose di veleno per spedirlo al Creatore. Oggi si sbandiera questa possibilità come un indice alto di civiltà, con tutte le accuse di integralismo e arretratezza per quanti non la pensano allo stesso modo. Non sarebbe fuori luogo chiedersi cosa si debba intendere per civiltà. Quando nel Medioevo fu introdotta la parola civilitas si voleva intendere quelle qualità sociali della gente di città, che la distinguevano dalla cultura individualista ed autarchica della gente rozza di campagna. Era l’individualismo la discriminante tra l’essere civili o incivili. Ora va da sé che reclamare la possibilità di chiedere la morte per sé e la possibilità di esaudirla intercetta esclusivamente un diritto individualistico, secondo una logica già sentita: la vita è mia e me la gestisco io.
Mi chiedo: quale effetto culturale produrrebbe sul tessuto sociale una legge rivendicata per me, ma di fatto diventata opportunità per tutti? E a quali abusi potremmo andare incontro, in nome di testamenti biologici ambigui che consentissero a vicini e parenti, ingordi di eredità o stanchi di accudire un malato, di praticare pericolose e sbrigative scorciatoie?
Ricordo quale impressione fece in me, giovane studente, sentire che San Francesco faceva divieto di spegnere anche un piccolo lume, in quanto espressione di vita. È per quello che ai tanti venditori di modernità preferisco ancora la logica dei santi.

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