Creare allarmismo su vino e salute sa molto di strategia di marketing
Ho sempre creduto fermamente nell’Europa, anche se ultimamene comincia a farsi largo il dubbio che non sempre ciò che propone, sia davvero il bene dei suoi membri, quantomeno per quanto riguarda i prodotti alimentari. Qualche dubbio mi era venuto tempo fa, quando si era prospettato di introdurre il Nutri-Score in tutti i Paesi dell’Unione...
Ho sempre creduto fermamente nell’Europa, anche se ultimamene comincia a farsi largo il dubbio che non sempre ciò che propone, sia davvero il bene dei suoi membri, quantomeno per quanto riguarda i prodotti alimentari. Qualche dubbio mi era venuto tempo fa, quando si era prospettato di introdurre il Nutri-Score in tutti i Paesi dell’Unione. Per ora è stato adottato solo da alcuni Stati, ma l’ipotesi che si stia spingendo per renderlo obbligatorio è meno remota di quanto si pensi. Di cosa si tratta? È semplicemente un’etichetta da applicare a tutti i prodotti, con lettere che vanno dalla A alla E, segnate dal colore verde in partenza, per arrivare al colore rosso. Una specie di semaforo che dà il via libera al consumo, oppure che mette il rosso dello stop, per gli alimenti considerati a rischio. Non che il Nutri-Score faccia divieto di vendere un determinato prodotto, ma non ci vuole l’intelligenza di un genio per capire che, davanti a una E con bollino rosso, procedere con l’acquisto risulterebbe un atto di incoscienza. L’intenzione sarà anche buona, ma crederci domanda un supplemento di buona fede, anche perché il punteggio da riconoscere ai vari prodotti considera solo le calorie, la quantità di acidi grassi saturi, gli zuccheri, le proteine, il sale, la quantità di fibre e gli oli. Criteri che spingono direttamente in zona D, ossia da semaforo arancione, nostri prodotti come l’Asiago, il Gorgonzola, il Grana Padano, la mozzarella di bufala campana, il Parmigiano Reggiano e il Pecorino Romano.
Se il Nutri-Score sembra incontrare ancora qualche riserva, nessun dubbio ha avuto la Commissione Europea per la lotta al cancro (BeCa, Beating Cancer) nel concedere all’Irlanda l’autorizzazione ad applicare sulle bottiglie di vino e liquori un’etichetta di allerta in cui si avverte che “il consumo di alcol provoca malattie del fegato” e “alcol e tumori mortali sono direttamente collegati”. Nonostante i pareri contrari di Italia, Francia e Spagna e altri sei Stati Ue, la stessa Commissione è determinata a procedere all’etichettatura degli alcolici, rendendola obbligatoria per tutti i Paesi dell’Unione, allo scopo di combattere il cancro.
Non sono produttore o commerciante di vino, quindi non sono mosso da interessi economici. Non sono neppure un bevitore. Scolarsi una bottiglia quando sei da solo, o è un gesto compensatorio di qualche problema che sta altrove, oppure si corre il rischio di esporre il prodotto alla perdita delle qualità organolettiche per la prolungata esposizione all’aria. Ciò precisato, qualificare il vino come prodotto che nuoce alla salute è una stupidità pregiudiziale. Il vino è un cibo. E in moltissimi casi è considerato un prodotto utile al benessere fisico delle persone. Basterebbe leggere la farmacopea medievalista, prima che la chimica si appropriasse delle case farmaceutiche, per scoprire in quante pozioni esso veniva usato per alleviare le problematiche di salute delle persone.
È ovvio che il vino va usato nelle giuste dosi. Come tutti i cibi, del resto. Perché se valesse la logica dell’uso senza criterio, dovremmo cominciare a scrivere etichette di allarme anche per il burro, per gli insaccati, i formaggi, risaputi produttori di colesterolo e trigliceridi. E cosa dovremmo scrivere sulle torte, sui prodotti di pasticceria, sulle scatole di zucchero, notori incentivatori del tasso glicemico?
Per i cibi è fondamentale procedere a campagne di educazione alimentare, soprattutto a fronte di una moderna cultura che fa slittare in secondo piano l’arte di prepararli e la qualità, servendosi piuttosto di prodotti preconfezionati di non sempre evidente genuinità. Ma trattare il vino alla pari del fumo, più che scorretto, sembra una strategia che puzza di giochetti di mercato. Che poi si siano cominciati dall’Irlanda, patria della birra che, dal Guinness del suo prodotto, ha fatto da secoli l’icona dei primati, più che togliere i dubbi, finisce per incentivarli.
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