Ciò che accade in Francia si può evitare solo favorendo l’integrazione
Quello che sta accadendo in Francia mi mette paura. Non solo per la violenza in sé, che inquieta con la potenza delle immagini, come se non ne avessimo abbastanza di quelle che ogni giorno ci consegna la guerra in Ucraina...
Quello che sta accadendo in Francia mi mette paura. Non solo per la violenza in sé, che inquieta con la potenza delle immagini, come se non ne avessimo abbastanza di quelle che ogni giorno ci consegna la guerra in Ucraina. Mi mette paura perché quello che sta accadendo oltralpe potrebbe benissimo propagarsi anche qui da noi. Dio non lo voglia. Intanto incrociamo le dita e speriamo bene.
A rendermi pessimista è il fatto che, dopo la Francia, anche la Svizzera e il Belgio sono alle prese con fenomeni analoghi. Il pericolo sono gli scoppi per simpatia, come dicono gli artificieri, quando la pressione causata dal deflagrare di una bomba finisce per innescare anche le cariche vicine.
A questo punto dobbiamo domandarci: ma noi, in Italia, abbiamo situazioni paragonabili, che potrebbero essere equiparate a mine dormienti, pronte ad esplodere? La risposta è sì, benché gli scenari non siano del tutto equiparabili. La Francia vive da tempo una situazione complessa di frammentazione e contrapposizioni. Si pensi ai “gilet gialli” che, qualche anno fa, hanno messo a ferro e a fuoco il Paese. O, per stare a tempi più vicini, l’ondata di violenza legata all’aumento di due anni dell’età pensionabile. Ora, l’uccisione di Nahel, il diciassettenne di origini nordafricane che non si era fermato ad un posto di blocco, ha finito per scatenare l’inferno. E questa volta per opera di ragazzi, dai 12 anni in su, che attraverso Tik Tok si arruolano a vicenda, studiando tattiche e strategie. Gli assistenti sociali ci hanno detto che in Francia c’è un sentimento di malessere diffuso. Quello dei figli di immigrati, che non si sono mai del tutto integrati, e che si sentono trattati come cittadini di serie B. C’è poi il sentire dei francesi, consapevoli che anche gli immigrati sono concittadini con gli stessi diritti, ma diversi per cultura, religione, colore e tradizioni proprie. Brutalmente, un corpo estraneo. L’arresto per razzismo dell’allenatore del Psg, per aver detto che voleva in squadra “meno neri e meno musulmani”, la dice lunga sul clima di tensione che si respira dai nostri cugini. Lui ha spiegato che non ce l’aveva con i neri perché tali, ma per il fatto che la gente non riconosceva come propria una squadra di calcio, composta quasi totalmente da gente di colore. Così come per i musulmani, lo spiegava col fatto che durante il Ramadan, i giocatori di religione islamica andavano in campo a digiuno, con ovvio sotto-rendimento. Giustificazioni respinte al mittente.
Se queste sono le ragioni delle violenze in Francia, la realtà degli immigrati deve essere attentamente considerata anche da noi, perché non basta dare un permesso di soggiorno o predisporre corsie umanitarie per chi viene con i barconi, salvo lasciarli poi abbandonati senza una vera integrazione sociale, linguistica e professionale. Lasciare la gente per strada non è risolvere il problema, ma creare le condizioni perché maturi la rivolta. Tempo al tempo.
Non va neppure sottovalutato il fatto che sia una generazione di ragazzi (perfino bambini) ad esprimersi con una simile violenza. Quanto pesa davvero la loro frequentazione e ispirazione dai social? Davvero terribile se ci trovassimo davanti a una nuova società fatta di violenti in pantaloni corti. Se poi l’estrema sinistra ne fosse anche il mentore, tutto diventerebbe più angosciante. Anche se tutto fa pensare che purtroppo sia così.
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