Certamente fu grande ma più come sportivo
Devo ammetterlo: non l’avevo capita, e forse non l’ho capita ancora, la reale grandezza di Mohammad Ali, alla nascita Cassius Clay. O meglio, ne conoscevo la grandezza sportiva, ma ho fatto fatica a mettermi in sintonia con un mondo in gramaglie, come se ci trovassimo davanti alla perdita di un gigante dell’umanità.
Devo ammetterlo: non l’avevo capita, e forse non l’ho capita ancora, la reale grandezza di Mohammad Ali, alla nascita Cassius Clay. O meglio, ne conoscevo la grandezza sportiva, ma ho fatto fatica a mettermi in sintonia con un mondo in gramaglie, come se ci trovassimo davanti alla perdita di un gigante dell’umanità. A suo tempo, guardando le sue imprese sul ring ne rimanevo affascinato e sconvolto. Mi intimoriva il fascino morboso della violenza che sprigionava, la sua aggressività e quel voler sconfiggere lo sfidante demolendolo psicologicamente, prima ancora che fisicamente.
Memorabile la scena, passata poi in un film, senza peraltro esser riusciti a riprodurre il pathos della realtà, del suo incontro con Terrell, lui pure pugile di colore. Quest’ultimo, prima del match, fece l’errore di provocarlo, chiamandolo Cassius Clay. Si rivelò un errore imperdonabile, come un graffio sul muso di una tigre. Muhammad Ali, che nel frattempo aveva cambiato religione e nome, ritenendo il suo nome di battesimo un nome da schiavo, si avventò sull’avversario con la foga devastante di un tornado. Furono 15 round in cui l’avversario fu tenuto in piedi a forza di montanti che non consentivano allo sfidante di collassare al tappeto.
Non era più un incontro di boxe, ma l’apologia del più forte, del maschio Alfa, quella del potere che nella storia si conquista con la violenza. Il replay di Caino e Abele, di Romolo e Remo, del fanatismo ideologico che si mangia la testa di sprovveduti giovani mandati a morire per un califfo del piffero, della dea Borsa che si mangia le nostre ricchezze e non restituisce nulla, del divertimento da morire che fa morire per davvero.
Anche Muhhamad Ali, a modo suo, era finito nell’ideologia. Quella di Elijah Muhammad, capo dei musulmani neri. Ma più che un incontro religioso, penso che il suo sia stato un percorso sul lettino dello psicanalista. Fu alla sua scuola che Cassius Clay prese coscienza della condizione di emarginazione delle minoranze nere. Fu alla sua scuola che trovò le ragioni per disertare la chiamata alle armi nel Vietnam.
Oggi l’America, nella figura dei suoi presidenti, ne beatifica il ricordo, consegnandolo al mito. Quasi un mea culpa o un riconoscimento tardivo degli errori politici di un passato non troppo lontano, che si vuole esorcizzare schierandosi con chi ha contestato quel passato. Non è poi senza significato che a tenere l’elegia funebre sia accorso Bill Clinton. Contro Donald Trump, che a novembre si gioca il ruolo di nuovo presidente contro la consorte Hillary, cosa di meglio di uno spot a vantaggio dei neri, degli ultimi, degli emarginati, preso a prestito dalle corde emotive del grande campione? In fondo a pensar male... Anche l’enfasi celebrativa del mito produce qualche vantaggio. Soprattutto se di mezzo c’è il potere.