Scipio Slataper e i fratelli Stuparich un’italianità pagata a caro prezzo
Nell’area triestina, così apparentemente lontana, eppure profondamente intrisa di un’italianità aperta al contatto col resto d’Europa, vi sono tre figure che hanno testimoniato fino in fondo questa appartenenza in un intreccio di amicizie, studi, ideali vissuti e pagati a caro prezzo...
Nell’area triestina, così apparentemente lontana, eppure profondamente intrisa di un’italianità aperta al contatto col resto d’Europa, vi sono tre figure che hanno testimoniato fino in fondo questa appartenenza in un intreccio di amicizie, studi, ideali vissuti e pagati a caro prezzo. Scipio Slataper (1888-1915), Carlo (1894-1916) e Giani Stuparich (1891-1961) vivevano il clima effervescente dei primi anni del Novecento ed erano convinti che solo la guerra potesse “redimere” l’Italia (da qui il termine “irredentisti” con cui sono designati) e chiudere la pagina del Risorgimento incompiuto con gli obiettivi di Trento e Trieste finalmente e “naturalmente” italiane. Andarono in guerra in tre, ma fu Giani il solo a tornare. Scipio cadde nel dicembre del 1915 in un’azione sul Podgora e ancor più terribile fu la fine di Carlo, l’anno dopo. Accerchiato dagli austriaci col suo reparto, preferì suicidarsi per non subire l’onta di essere impiccato come “traditore”, in quanto suddito dell’Imperial regio governo, ma arruolato nell’esercito italiano. Nel 1919, a guerra finita, gli fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare. E nello stesso anno, il fratello Giani curò per la casa editrice “La Voce” la pubblicazione dell’unica opera di Carlo, Cose e ombre di uno, poi uscita a più riprese fino all’ultima edizione del 2006, per i tipi di Ibiskos. L’atmosfera che vi si respira è quella de “La Voce” di Giuseppe Prezzolini, la rivista fiorentina che i tre amici frequentarono a Firenze, alla cui università si erano iscritti. La stessa aria che aleggia nello scritto più famoso di Scipio Slataper, Il mio Carso, scritto nel 1911, quando l’autore aveva 23 anni, e pubblicato l’anno dopo, nel 1912. “Ribelle all’Austria e volontario di parte italiana in una guerra attesa e partecipata – scrive Mario Isnenghi nella prefazione all’edizione mondadoriana degli Oscar del 1980 – Il mio Carso di Scipio Slataper è un libro d’epoca, un libro di genere e – fortissimamente – un libro di piccolo gruppo”. Si riferisce, Isnenghi, alle frequentazioni triestine di Slataper che includevano gli amici Giani Stuparich, Anna Pulitzer, Elody Oblath, Gigetta Carniel. Soprattutto a Giani Stuparich, che, come abbiamo visto, avrà un ruolo fondamentale nelle pubblicazione postuma degli scritti di Slataper. Una stagione lontana, eppure straordinaria, di passioni civili e di sentimenti. Quel gruppo di triestini, trapiantati a Firenze, aveva frequentato la rivista “La Voce” di Giuseppe Prezzolini accanto ai giovani e frementi scrittori Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Pietro Jahier che ci darà un’opera bellissima (Con me e con gli Alpini), al poeta Giovanni Boine, al critico Renato Serra, anche lui morto in combattimento sul Podgora, il 20 luglio del 1915, nella terza battaglia dell’Isonzo a soli trent’anni. E Giani Stuparich sarà significativamente il custode di quelle memorie, ma si dimostrerà scrittore potente e ancora in grado di muovere emozioni nelle giovani generazioni. Scegliamo di lui il racconto Un anno di scuola, uscito nel 1929 e recentemente nel 2017 per Quodlibet. Una vicenda che si dipana nell’arco di un solo drammatico anno scolastico, nella classe di un liceo maschile, con al centro la figura dell’unica ragazza, Edda Marty. Questa densissima esperienza, che si consuma tra i banchi di scuola, segna la fine delle illusioni giovanili, l’entrata nella maturità e, gaddianamente, “la cognizione del dolore”.
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