Ex Cathedra
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Il ragazzo beat e i complessi degli anni Sessanta e Settanta

A volte mi sorprendo a guardare i manifesti dei complessi degli anni ’60, la fissità degli sguardi di quei ragazzi che avevano imbracciato la chitarra, anche se pochi la sapevano suonare veramente...

Parole chiave: Ex Cathedra (34), Beat (9), Complessi (2), Anni Settanta (1), Anni Sessanta (2)

A volte mi sorprendo a guardare i manifesti dei complessi degli anni ’60, la fissità degli sguardi di quei ragazzi che avevano imbracciato la chitarra, anche se pochi la sapevano suonare veramente. Sembrava stessero aspettando chissà che cosa e questa loro gestualità trascendentale costituiva un momento dell’esperienza di tutti. Era la vita che diventava raccontabile, riconoscibile, cantabile, cantabilissima. Dai veronesi Tornados ai King’s e, per allargare l’orizzonte, a Ribelli, Camaleonti, Equipe 84, Rokes, Dik Dik, Nomadi: una sfilza di nomi, volti, situazioni, atmosfere musicali, tutte connotate dal dà-dà-dà-dà, quasi una sigla, un Dna che ha creato appartenenza e, a distanza di anni, reazioni pavloviane negli “anta”. Queste situazioni nei paesi erano contrassegnate da sfide all’ultima nota nei cinema riconvertiti in fretta in spazi per concerti. Uno su tutti, il mitico cinema-teatro Capitol di Bussolengo, all’inizio del centro storico, in cima alla salita dello “scùrtolo”, una strada allora non ancora asfaltata di Bussolengo. E comunque, ai bordi dello spazio abitato, in una zona fortemente extraterritoriale. Una sera si videro scendere da una Porsche nera due individui con due cappellacci neri. Erano Maurizio Vandelli, il “Principe” dell’Equipe 84, e Victor Sogliani: avrebbero dovuto sfidarsi al Capitol coi The Rokes di Norman David “Shel” Shapiro (Londra, 16 agosto 1943). Una serata memorabile per ragazzi di molti paesi. E che dire di quell’altro debutto, di là del ponte, a Pescantina, dei quattro della “New Generation”, Maddella, Righetti, Botteon e Perusi, che avrebbero dovuto vedersela con I Meticci di “Chico” Franchini, “Narci” Bolzon, Angelo “Cilìto” Calabrese e Antoine Bonometti? Qualcuno era andato a scuola di chitarra, qualche altro a orecchio aveva imparato in fretta e furia quattro accordi: bastava uscire sul palco e aspettare i tre colpi di bacchetta del batterista. Pronti, via: un tempo magico in cui tutto diventava motivo di aggregazione e di festa. I risparmi delle paghette servivano per gli stivaletti alla Beatles, neri a punta con gli elastici, da indossare col giaccone blu o nero e il berrettino che aveva lanciato John Lennon. Tutto faceva appartenenza, diventava un elemento per stare insieme. I periodici Ciao amici e Big, poi diventati Ciao 2001, passavano di mano in mano; i garages e i locali abbandonati, tappezzati coi manifesti, diventavano i rifugi di una generazione e i ritrovi fuori casa per ascoltare musica. Una miscela di impaziente voglia di vivere e di apertura  al mondo, oltre il paese e la città. Su questa via, i nomi e le canzoni che avevano dettato e regolato questo periodo: Beatles, Rolling Stones, Bee Gees, prima della disco music di fine anni ’70, e un’infinità di gruppi che arrivavano dall’Inghilterra, la british invasion, e da ogni parte del mondo. Il beat fu per la prima volta un fenomeno globale, ancora di più di quello che era stato avviato col rock and roll di sua maestà Elvis. Un linguaggio che aveva trovato una nuova categoria di parlanti, la scoperta di uno storytelling ante litteram. Come si vestivano i Beatles, come viaggiavano, cosa leggevano, come si abbigliavano i Rolling Stones... E poi bisognava parteggiare: o di qua o di là. Il discrimine era netto, invalicabile, esclusivo. Ragazzo beat: finì negli anni ’70. Ma già prima c’erano segni di un’attenuazione di questa tensione ritmica, musicale, psicologica. Quando i Beatles si sciolsero fu un colpo durissimo: certo, rimaneva un patrimonio musicale straordinario, una rivoluzione che continua ancora a dare frutti a distanza di mezzo secolo. Ma non fu più come prima. I Beatles avevano inventato tutto: le liturgie dei gruppi, le dinamiche e anche i riti dello scioglimento. E, a proposito, affiora in me un ricordo personale. Quando persi improvvisamente mio padre, cercai tra le mie impressioni ed emozioni qualcosa che si avvicinasse a quel sentimento di vuoto e di sconfitta irreparabile che ti dà la morte. Trovai, al fondo, che una sensazione simile l’avevo provata, quasi trent’anni prima, allo scioglimento dei Beatles. E credo di non essere stato il solo.

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