Il Fatto di Bruno Fasani
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Non facciamo martire un leader politico con il vento sotto i capelli...

Bisognerà ringraziare la Provvidenza se il nuovo attentato, che avevano preparato per far fuori Donald Trump, non è andato a buon fine. Primo perché si è risparmiata la vita all’aspirante presidente...

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Non facciamo martire un leader politico con il vento sotto i capelli...

Bisognerà ringraziare la Provvidenza se il nuovo attentato, che avevano preparato per far fuori Donald Trump, non è andato a buon fine. Primo perché si è risparmiata la vita all’aspirante presidente. Il Signore deve aver guardato dall’alto e, nonostante si sia reso conto di aver sbagliato qualche dose degli ingredienti, si sarà detto che comunque è sempre un suo figlio. In secondo luogo perché la sua morte avrebbe causato lo scatenarsi di una guerra civile nel bel mezzo di una campagna elettorale che da anni non conosceva un simile clima di violenza. Gli analisti vanno spesso con le loro considerazioni a fare analogie con gli anni Sessanta, quando vennero uccisi J. F. Kennedy, suo fratello Robert e il profeta della pace, Martin Luther King.
Ma a risentire di una sua eventuale dipartita non sarebbero stati soltanto gli sfegatati elettori repubblicani. Gli osservatori politici (e non soltanto quelli di fede democratica) osservano che il partito repubblicano, con Trump, ha assunto i caratteri di una setta, diretta da un santone, simile al pifferaio di Hamelin. Il riferimento è alla storia, messa in prosa dai fratelli Grimm. Siamo nel Trecento. Il borgomastro di un comune in Germania chiede al pifferaio di allontanare i ratti dal paese (iniziativa che andrebbe fatta propria anche da qualche amministratore nostrano), soltanto che poi si rifiuta di dargli il compenso pattuito. È allora che il suonatore dallo strumento magico decide di consumare la sua vendetta, portandosi appresso tutti i bambini, succubi dei suoni del suo strumento.
Per analogia il ricordo va all’assalto di Capitol Hill, il 6 gennaio di tre anni fa, quando migliaia di esaltati seguaci di Trump invasero la sede del Congresso, per impedire che venisse confermata l’elezione di Joe Biden. Cinque morti e molti feriti furono l’esito di quella vicenda, dove individui vestiti da sciamani o agghindati da barbuti Braveheart dimostrarono che agli ordini del pifferaio non ci si poteva sottrarre.
Dicevo che non soltanto i suoi fedelissimi avrebbero patito la sua dipartita. Nel focoso confronto televisivo con la sua antagonista, Kamala Harris, abbiamo scoperto un pifferaio difensore anche dei gatti. Stavolta di mezzo non ci sono più i topi, come ad Hamelin, ma i gatti, i quali notoriamente di topi vanno a caccia. Fuori metafora: un topo, un voto. Ha detto che gli haitiani immigrati li mangiano, e così fanno con i cani. L’informazione si è rivelata una bufala, inventata da una burlona in vena di prendersi gioco dei creduloni che si nutrono sul digitale. Sta di fatto che Trump ha deciso di crederci, arrogandosi il titolo di nuovo tutore dei gatti. E già si vedono in giro manifesti con lui che fa le fusa o che scorrazza per le praterie a cavallo di un micio. Verrebbe da suggerire ai cugini vicentini di andare a Monte Berico ad accendere un moccolo, considerata la fortuna di non aver trovato qualche Trump sulla loro strada, mentre andavano consolidandosi nella fama di magnagati.  
Oddio, poi non è che da Trump si possa pretendere coerenza ad oltranza. E allora perché non colpire le gattare, quelle persone che si prendono cura dei felini domestici e che lui identifica con la sua rivale che chiama con disprezzo childless cat lady, letteralmente donna dei gatti, perché senza figli? Una lezione di stile da uno che vorrebbe accreditarsi come difensore del mondo animale, salvo poi promettere, qualora eletto, la più grande deportazione di immigrati della storia. E uno si chiede il perché di tanta stranezza, con l’unica risposta che tutto dipende probabilmente da qualche dose sbagliata degli ingredienti.

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