Il primo giorno di scuola una domanda... fuori tema
C’è un giorno di maggio del 1978 scolpito nella mia memoria: la prima volta che entrai in una classe, ma dall’altra parte. Avevo appena finito l’università a Padova e mi arrivò inaspettatamente una chiamata da San Pietro in Cariano, dove era iniziato da qualche tempo l’Istituto tecnico commerciale, allora “sede staccata” del Bolisani di Isola della Scala...
C’è un giorno di maggio del 1978 scolpito nella mia memoria: la prima volta che entrai in una classe, ma dall’altra parte. Avevo appena finito l’università a Padova e mi arrivò inaspettatamente una chiamata da San Pietro in Cariano, dove era iniziato da qualche tempo l’Istituto tecnico commerciale, allora “sede staccata” del Bolisani di Isola della Scala. Lo stacco dell’università era bastato per allontanarmi dalla situazione che avevo lasciato uscendo dal Maffei cinque anni prima. Ora dovevo inventarmi tutto e, per quanto non ci dormissi la notte antecedente la prima lezione, non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Arrivai con grande trepidazione a Villa Rubinelli, ora sede del Comune, dove allora erano ospitate le aule della Ragioneria. Mi accolse l’Angiolina, segretaria, poi storico volto per decenni all’Itc, e fui accompagnato in classe. Era una seconda e ritrovai molti ragazzi che conoscevo perché arrivavano dai paesi vicini e anche dal mio. Uno in particolare, che conosceva la mia famiglia, tra l’ilarità generale alzò la mano da uno degli ultimi banchi e fece la domanda: «Profe, ma quanto costa la marmitta del Ciao?». Venne giù la classe perché fino a quel momento più di uno dei ragazzi mi aveva visto nella bottega di via Are 153 a Pescantina, dietro il bancone dei pezzi di ricambio di moto, bici e motorini. Nessuno di loro sospettava che nel frattempo mi fossi laureato in lettere classiche a Padova, e mi vedeva ora lì dall’altra parte. Riuscii a ricomporre la situazione non senza difficoltà e la lezione terminò. Tornai a casa e a tavola raccontai l’accaduto. Pensavo di trovare solidarietà tra i miei fratelli, ma prevalse lo sfottò. Luciano, in tono un po’ canzonatorio, per sdrammatizzare, disse: «La prossima volta ti porti su i listini…». Risata generale dei commensali. A ripensarci, un tempo lontanissimo fatto di volti che non ci sono più, ma carissimo nella mia memoria. Capii che anche le cose più piccole bisogna guadagnarsele duramente. Finì in pochi giorni quella breve supplenza. Poi partii per fare il soldato e al ritorno ricominciai con le supplenze un po’ dappertutto, dove c’era la possibilità. Fu un percorso lungo sette anni, prima di entrare in ruolo coi concorsi che segnarono una stagione dura, di grande impegno. Vinsi alle medie e poi, l’anno dopo, alle superiori e fui destinato a Schio, in un professionale. Entrando in classe, sentii profumo di officina, di macchine, torni, frese, olio. Una condizione familiare perché nell’officina di papà sono diventato grande e niente per me è più familiare di questo profumo. I ragazzi, in tuta, avevano le mani sempre un po’ annerite, come quelle di papà, di Claudio, Adriano, Cibo, di tutti quelli che lavoravano in officina. Ero a casa mia. Fu un anno indimenticabile per la profondità delle relazioni e dei discorsi che quei ragazzi, che avevano come traguardo dichiarato il mondo del lavoro, sapevano tirar fuori dalle letture che si facevano in classe. E fu quella la scelta che determinò anche il mio futuro: decisi che avrei condiviso tutto quello che sapevo con chi aveva fame di conoscenza e che questa sarebbe stata una gioia grande. Una passione che ha illuminato, da allora, la mia vita.
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