«Perché non prete?» E Michele racconta il suo impegno “altro”
di LUCA PASSARINI
«Perché non diventi prete?»: una domanda che è risuonata tante volte per Michele Onesti, 46 anni, originario di Moniga del Garda, provincia di Brescia e diocesi di Verona, per la quale è diacono da 19 anni. Ci svela: «Il primo a farmela in realtà sono stato io stesso, quando in quarta superiore, affascinato anche dalla mia parrocchia, ho fatto una scelta adulta di fede e mi sono detto che desideravo mettermi a servizio della comunità cristiana: questo mi ha condotto pian piano al Seminario vescovile».
Qui, tra tante gioie e qualche fatica, ecco arrivare l’ordinazione diaconale il 3 maggio 2003, dopo la quale ha concordato con gli educatori una fermata rispetto a un percorso che sembrava decisamente indirizzato al presbiterato: «La vocazione diaconale non è mai stata in discussione, ma vedevo profilarsi tanti dubbi e insicurezze rispetto al secondo grado dell’Ordine: in quel periodo si sono ripresentate varie domande delle persone sul perché non diventassi prete, eppure nessuno mi ha mai messo pressione, a partire dai miei formatori». Con loro e con il vescovo padre Flavio Roberto Carraro ha iniziato un percorso di ulteriore discernimento, che metteva insieme insegnamento della religione cattolica nelle scuole e servizio nelle parrocchie: «Tutto questo mi ha confermato nella scelta e, se anche oggi di tanto in tanto qualcuno torna a chiedermi perché non divento prete, sono ben consapevole di quello che è il mio ministero, che tra l’altro ha una elasticità e varietà che maggiormente risponde alla mia persona; anzi, il risentire questa domanda mi spinge a far risaltare ancora di più il proprio del diaconato». Ambiente dove maggiormente vive il suo ministero è quello della scuola superiore: «Ho iniziato presso il “Lavinia Mondin” e il “Romano Guardini” in città a Verona, poi spostandomi sul lago bresciano sono stato dieci anni all’Istituto agrario “Vincenzo Dandolo” e da due sono al “Bazoli-Polo” a Desenzano: una scuola molto grande e complessa, in cui io ho 18 classi e circa 300 studenti su un totale rispettivamente di 64 e 1.200. Vedo che tutto questo mi ha fatto crescere molto in professionalità e autonomia, confrontandomi con gli altri docenti – con la particolarità di essere diventato collega di qualcuno che era stato mio insegnante – e cercando di entrare sempre più nel mondo di questi adolescenti».
Da questa esperienza non sono mancati frutti belli e altri più amari: «Ci sono stati momenti di confronto e aiuto reciproco nello sbagliare, segnalare l’errore, provare a migliorare; ho vissuto l’esperienza difficilissima più di una volta di dover entrare in una classe per dire che uno dei loro compagni aveva deciso di togliersi la vita; mi è capitato di arrabbiarmi, ma di ottenere attenzione e allo stesso tempo una più facile ripresa della serenità per il fatto di aver sbottato in… bresciano». Tra tutte, due situazioni in particolare ci segnala il diacono Michele: «Quando mi hanno assegnato all’Istituto agrario, mi avevano detto che era una situazione non facile; alla prima lezione sono entrato con la radice di una vite, ho mostrato ai ragazzi che anch’io avevo dimestichezza con questo ambiente e soprattutto ho detto loro che anche quando qualcosa sembra secco e senza speranza, c’è sempre una possibilità di essere utile e prezioso per qualcosa, in questo caso, per esempio, per cuocere lo spiedo. È stato un momento semplice, bello e attraverso cui siamo riusciti ad entrare in dialogo, e devo dire che mi sto accorgendo che, da quando sto facendo l’insegnante, anche il mio modo di parlare è cambiato, pure come quando ho davanti quel gruppo di persone, per me stranamente ferme, in silenzio e senza cellulare, che è quello che si riunisce per la celebrazione eucaristica: dal rapporto con i ragazzi ho imparato a proporre pure nell’omelia un messaggio breve, incisivo e chiaro».
Altro episodio che dice una modalità di stare in questo servizio: «A lezione, mentre stavamo guardando varie immagini di persone legate alla fede, uno studente mi ha chiesto chi fossero quei giovani tutti con la camicia bianca e i capelli a caschetto; gli ho risposto che erano dei missionari mormoni, ma che ne avremmo parlato in un altro momento. Nei giorni successivi ho trovato in piazza Erbe un loro banchetto, mi sono avvicinato, presentato come diacono cattolico e chiesto un Libro di Mormon. Dopo un loro momento di imbarazzo, abbiamo scambiato qualche parola e ci siamo dati appuntamento a un corso di inglese da loro proposto, che comunque desideravo fare soprattutto in vista della successiva Giornata mondiale della gioventù. Da allora ho creato con qualcuno di loro un legame bello e semplice, che diventa una spinta per tutti ad abbattere preconcetti e vivere profondamente la propria spiritualità».
Accanto alla scuola, pure l’ambiente della pastorale parrocchiale, con cui non mancano del resto intrecci e rimandi: «L’impegno è ovviamente concentrato soprattutto nel fine settimana e in estate. Oltre che tutto quello che riguarda la liturgia, la presenza è stata in diversi settori, dalla carità agli scout, dalla formazione degli adulti alla catechesi per i ragazzi. Nelle diverse esperienze parrocchiali, Porto San Pancrazio, Moniga, Soiano, Santa Maria Regina, Sant’Angela Merici a Desenzano, ho sempre colto come per la gente è una grande testimonianza vedere lavorare insieme un prete e un diacono, perché è anche un modo per far emergere maggiormente lo specifico di ciascun ministero con le proprie peculiarità e differenze».
I parecchi cambi di questi anni non sono visti da Onesti come un limite: «Credo che faccia parte del nostro specifico anche una maggior possibilità e facilità di spostamento che, tra l’altro, mi ha dato occasione di conoscere parecchi preti e comunità, oltre che di confrontarmi con situazioni differenziate: dalle mie terre bresciane, dove alla gente fa sempre molto piacere sentire una cadenza locale, alla città che, per me di campagna e tranquillità, è stato un bello stimolo. In particolare sono stati cinque anni molto belli a Santa Maria Regina, con don Simone Bellamoli: una delle più belle soddisfazioni è che all’inizio non conoscevano cosa fosse un diacono, ma nei saluti finali sono emerse dalle loro parole proprio le caratteristiche tipiche di questo ministero. Lo spostamento a Sant’Angela Merici, poi, è stato reso più facile e allo stesso tempo più particolare dal fatto che è stato un tornare nella comunità in cui ero stato vent’anni prima durante l’esperienza formativa da seminarista. Inoltre, ho ritrovato come parroco don Damiano Busselli con cui avevo già lavorato insieme a Moniga e Soiano e con cui c’era già grande sintonia». A tenere insieme i diversi impegni di Michele Onesti, un passo della lettera di san Paolo ai Corinzi: “Ma la più grande di tutte è la carità!” (1Cor 13,13), che per lui si intreccia con una frase di Angela Merici: “Tenete l’antica strada e fate vita nuova”. Ci commenta in conclusione: «Proprio questo è il modo tipico dei veri rivoluzionari: non cambiare tutto, buttando via ogni cosa precedente, ma saper portare uno stile nuovo pure nelle situazioni più abituali».
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