La critica a Varrone e a Seneca
Finora abbiamo analizzato il pensiero di Agostino espresso nei suoi primi cinque libri della Città di Dio. In essi confuta ai Romani il potere che attribuiscono agli dei sul benessere terreno...
Finora abbiamo analizzato il pensiero di Agostino espresso nei suoi primi cinque libri della Città di Dio. In essi confuta ai Romani il potere che attribuiscono agli dei sul benessere terreno. Nei seguenti cinque libri confuta il potere che gli dei e i loro intermediari, i démoni, hanno di condurre l’uomo alla felicità eterna. Annota Agostino che se nessun idolo dei plebei e degli aristocratici è mai stato in grado di dare sostegno ai regni mortali, come già dimostrato nel libro IV, a maggior ragione sono incapaci di rendere immortali esseri mortali (Cfr De civ. Dei VI, 1, 3). Una critica radicale. Tuttavia, fa ricorso in suo favore anche a due grandi autori latini, Marco Varrone, “l’uomo senza confronti più acuto e senza dubbio il più colto” (De civ. Dei VI, 2), da cui Agostino attinge la maggior parte delle notizie sul politeismo, e da Lucio Anneo Seneca. Propagatori del politeismo loro malgrado, ma, nel contempo, assai critici nei confronti della religione mitica dei poeti rappresentata nel teatro, e di quella politica o civile praticata dai sacerdoti specialmente nelle pratiche misteriche, imposta ai Romani e ai loro sudditi per volontà dello stato. Varrone, ad esempio, legittima la religione naturale, quella cioè che nei fenomeni della natura faceva riconoscere le traccia della potenza e della bellezza di Dio, mentre si mostrava alquanto accondiscendente alla mentalità comune per fedeltà alle leggi della patria (Cfr De civ. Dei VI, 1, 2).
Agostino, che conosceva lo scetticismo sostanziale di Cicerone, lo mette con le spalle al muro e gli smonta l’autoreferenzialità e l’incongruenza: “O Marco Varrone, pur essendo tu l’uomo più acuto di tutti e senza alcun dubbio il più dotto, tuttavia sei un uomo non Dio… In che cosa ti è di aiuto la cultura umana?… Tu desideri onorare gli dei di una religione naturale e sei costretto a onorare quelli dello Stato” (De civ. Dei VI, 6).
Agostino si mostra un fine censore nei confronti di Varrone, per il fatto che pur dotato di una mente così acuta, non abbia voluto essere un critico coerente nei confronti di quegli dei che la mitologia dei poeti autorizzava a far rappresentare nei teatri in forme sconce, dissolute e biasimevoli, non rendendosi conto forse del danno che tali rappresentazioni creavano nell’animo della gente incolta, facilmente predisposto all’emulazione: “La compagnia degli uomini dissoluti contamina la vita, se riescono ad inserirsi nei nostri affetti e assensi” (De civ. Dei VI, 6, 2). In definitiva, Varrone “confessa che (i Romani) come hanno fatto gli dei in forma umana, così hanno creduto che (gli dei) si dilettassero delle voluttà (dei piaceri) degli uomini” (De civ. Dei VI, 7, 1). Agostino sottopone ad esame critico anche il filosofo Seneca nei riguardi del politeismo. Certo, questo filosofo era perplesso nei confronti della religione civile, quella cioè strumentalizzata dalla politica. Tuttavia, osserva Agostino, da senatore qual era, era costretto a “onorare ciò che biasimava, compiere atti che satireggiava, adorare ciò che accusava” (De civ. Dei VI, 10, 3). Dunque, Seneca si dimostrò nei fatti un conformista (Cfr Ivi). Agostino è convinto che non il politeismo è fonte di felicità terrena ed eterna, ma solo Dio: “Poiché non è una dea, ma dono di Dio: a quale Dio se non a Colui che fa dono della felicità dobbiamo consacrarci noi che, con amore pio siamo affettivamente protesi alla vita eterna, dove c’è la vera e piena felicità?” (De civ. Dei VI, 12). Ora, osserva Agostino, la felicità non può provenire dagli dei immondi e sconci. Di conseguenza, “Senza dubbio chi non dà la felicità, come potrebbe dare la vita eterna? Certo noi diciamo vita eterna dove c’è la felicità senza fine. Infatti se un’anima vive nelle pene eterne, da cui saranno tormentati gli spiriti immondi, quella è morte eterna piuttosto che vita… la sua suprema morte è la sua alienazione dalla vita di Dio nell’eternità del supplizio… ma la forza di una letargica consuetudine ha le radici troppo in profondità” (De civ. Dei VI, 12).
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