Dov’erano gli dei quando...?
Ed ecco la domanda inquietante e severa di Agostino, a raffica incalzante, alla quale nessun Romano sarebbe stato in grado di rispondere con motivazioni razionali...
Ed ecco la domanda inquietante e severa di Agostino, a raffica incalzante, alla quale nessun Romano sarebbe stato in grado di rispondere con motivazioni razionali: “Dove erano dunque quegli dei, che si ritiene di doversi venerare in funzione di una insignificante e fallace felicità di questo mondo, quando i Romani, ai quali si esponevano in vendita con astuzia assolutamente menzognera per farsi onorare, erano vessati da così grandi calamità? Dove erano quando il console Valerio fu ucciso, mentre difendeva con successo il Campidoglio, al quale esiliati e schiavi avevano appiccato il fuoco?… Dove erano quando la cittadinanza, afflitta dal male incessante delle sedizioni, in un breve periodo di tranquillità, aspettava gli ambasciatori mandati ad Atene per mutuarne le leggi, fu devastata dalla grave fame e dalla pestilenza?… Dove erano quando, scoppiata una gravissima pestilenza, il popolo a lungo e molto affaticato, decise di esibire agli dei inutili nuovi banchetti nei quali si esponevano su letti le loro immagini?... Dove erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma?… O quando, dopo lunghe e gravi sedizioni a Roma, alla fine la plebe fece secessione sul Gianicolo, con ostile discordia?” (De civ. Dei III,17,2).
Assenti o distratti erano durante le guerre di Roma contro Taranto, nelle quali fu coinvolto lo stesso re dell’Epiro, Pirro con i suoi elefanti: “Allora aumentarono di numero così tante guerre che per mancanza di soldati venivano arruolati i proletari… in una così grande strage delle guerre scoppiò pure una grave pestilenza tra le donne” (De civ. Dei III,17,3). Il testo prosegue ricordando il freddo eccezionale di quell’inverno. La neve permase nel foro per quaranta giorni. Il Tevere gelò. Scoppiò una ulteriore pestilenza che si protrasse per due anni. E gli dei sempre assenti e indifferenti. Furono consultati i libri sibillini, i quali diedero responsi devianti. In effetti, “erano state a lungo rivolte suppliche a una così folta moltitudine di divinità inutilmente” (De civ. Dei III,17,3). Seguirono le guerre puniche con devastazioni e stragi. Il Tevere straripò e sommerse le parti pianeggianti della città. Devastò persino il tempio della dea Vesta, che non salvò nemmeno se stessa (Cfr. De civ. Dei III,18,1-2). Dov’era dunque se non salvò nemmeno il suo tempio e se la sua stessa statua fu messa in salvo dal pontefice Metello? (Cfr. De civ. Dei III,18,2). E la seconda guerra punica! Annibale! I Romani detrassero dai templi degli dei le loro armi che tenevano in pugno inutilmente, come a dire: lasciatele a noi, dal momento che non ci avete soccorso (Cfr. De civ. Dei III,19). Soprattutto la presa di Sagunto, assediata e distrutta da Annibale, documentò l’inutilità degli dei. La gente straziata dalla fame, mangiava la carne dei caduti. Alla fine si buttarono insieme in un grande rogo, dopo essersi trafitti di spada. E dov’erano “gli dei ghiottoni e nebulosi, bramosi del grasso dei sacrifici e ingannatori con la caligine delle fallaci divinazioni”? (De civ. Dei III,20). Eppure, obietta Agostino, “avrebbero dovuto venire in soccorso ad una città amicissima del popolo romano” (Ivi), che venerava i medesimi dei. Dove erano questi, quando Annibale la devastava? Erano forse arroccati a Roma? Precisa Agostino: “Stoltamente si crede che avendo come difensori quegli dei Roma non è perita, nonostante la vittoria di Annibale, dal momento che non furono in grado di soccorrere la città di Sagunto, perché non andasse in rovina per l’amicizia con Roma” (Ivi). Gli dei, dunque, almeno per riconoscenza verso Roma, che mai aveva cessato di venerarli, avrebbero dovuto soccorrere la città della Spagna più fidata, qual era Sagunto. Ma da quegli dei nemmeno un cenno di risposta. In effetti, dov’erano?
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento