Continenza, suicidio, idolatria e lussuria ne La città di Dio
A mano a mano che si inoltra nella stesura della sua opera monumentale, La città di Dio, Agostino affronta ogni genere di questione, prospettandone la versione cristiana, anche umanamente parlando assai superiore a quella pagana...
A mano a mano che si inoltra nella stesura della sua opera monumentale, La città di Dio, Agostino affronta ogni genere di questione, prospettandone la versione cristiana, anche umanamente parlando assai superiore a quella pagana. Siamo ancora nel libro primo e, dopo aver dato risposta al tema del rapporto tra vita terrena e vita eterna, ha affrontato il tema degli stupri perpetrati dai barbari. In questo quadro Agostino focalizza il rapporto tra atto di violenza carnale subìto e volontà. E precisa che la santità del corpo è data dalla santità dell’animo: “Di conseguenza, se permane ferma l’intenzione dell’animo, per cui anche il corpo ha meritato di venir santificato, la violenza dell’altrui atto di libidine non toglie al corpo stesso la santità che la perseveranza della sua continenza conserva… Ricordiamoci piuttosto che in tal modo non si perde la santità del corpo se rimane la santità dell’animo, anche nel caso in cui il corpo sia stato violentato, come del resto viene perduta la santità del corpo quando è stata violata la santità dell’animo anche se il corpo rimane intatto” (De civ. Dei, 1,18,2).
Proprio il tema della pudicizia da salvaguardare nell’animo suggerisce ad Agostino di affrontare quello del suicidio. La sua risposta: se la pudicizia non viene violata da un atto di violenza carnale del tutto subìto, nessuna motivazione giustifica il suicidio, nemmeno nel caso di Catone uticense e neppure nel caso di Lucrezia, che si suicidò per salvaguardare la sua pudicizia, come ricorda successivamente: “(Nel suicidio di Catone uticense anche i suoi amici) valutarono che fosse più un gesto di un animo debole piuttosto che forte, mediante il quale non si dimostrava l’onestà che si guarda dalle cose turpi, ma la debolezza incapace di sostenere le avversità” (De civ. Dei, 1,23).
Ora, sottolinea Agostino, proprio nelle avversità il cristiano pone la sua fiducia e la sua speranza in Dio, vivendo come un pellegrino diretto verso la patria. Ma i pagani possono aver fiducia degli idoli? Ecco la sua risposta: “Pertanto ogni famiglia del sommo e vero Dio ha (in Lui) la sua consolazione, non fallace né fondata sulla speranza delle cose che oscillano e che si dileguano. E (la consolazione in Dio ce l’ha) la stessa vita terrena, di cui per nulla (vi è da) pentirsi, se in essa si viene educati a quella eterna. Tuttavia, (la vita terrena va vissuta) come un pellegrinaggio nel quale far uso dei beni della terra senza lasciarsene catturare, mentre si lascia fortificare o emendare dai mali. Coloro che insultano la sua onestà e gli dicono: «Dov’è il tuo Dio?», dicano essi stessi dove stanno i loro idoli, quando soffrono tali cose dal momento che per evitarle o li onorano o si affaticano a farli onorare” (De civ. Dei 1,29).
I pagani, sottolinea Agostino, si lamentano delle avversità solo perché, bramando ricchezze per vivere nella lussuria e saziare la libidine di dominare, non possono più fruirne: “Perché (voi pagani) afflitti dalle avversità vi lamentate dei tempi cristiani se non perché bramate avere al sicuro la vostra lussuria e andare alla deriva a causa di costumi estremamente pervertiti, tolta di mezzo ogni forma di asprezza delle molestie? Infatti nemmeno desiderate di conseguenza avere la pace e abbondare di ogni genere di ricchezze per far uso di questi beni con onestà, cioè con modestia, sobrietà, temperanza, pietà. Ma (usate di questi beni) perché sia ricercata una infinita varietà di cupidigie con sperperii insani e perché dalle situazioni di prosperità nascano quei mali nei costumi che sono peggiori delle crudeltà dei nemici… originati dal benessere immediatamente sono conseguiti così grandi mali… ribolliva una così grande enormità di proscrizioni (confische) e rapine che i Romani, perduta l’integrità della vita, subivano cose più crudeli dai cittadini; e quella stessa libidine di dominare, anche sotto il giogo della schiavitù oppresse coloro che già erano schiacciati e sfiniti” (De civ. Dei 1,30).
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