Agostino nel travaglio dell’adolescenza
Ormai sulle soglie dell’adolescenza che sussegue la fanciullezza, vissuta da ragazzo vivace, Agostino riconosce la preziosità della sua vita, che considera dono di Dio, con tutte le sue prerogative, belle e piacevoli: “Al nostro Dio rendo grazie... anche se tu avessi voluto la mia esistenza limitata alla mia fanciullezza... e negli stessi piccoli pensieri persino delle piccole cose mi dilettavo della verità. Non volevo essere ingannato; ero dotato di una memoria vigorosa; apprendevo l’arte della parola; mi sentivo accarezzato dall’amicizia; rifuggivo il dolore, l’abiezione, l’ignoranza. Ma tutte queste cose sono doni del mio Dio”...
Ormai sulle soglie dell’adolescenza che sussegue la fanciullezza, vissuta da ragazzo vivace, Agostino riconosce la preziosità della sua vita, che considera dono di Dio, con tutte le sue prerogative, belle e piacevoli: “Al nostro Dio rendo grazie... anche se tu avessi voluto la mia esistenza limitata alla mia fanciullezza... e negli stessi piccoli pensieri persino delle piccole cose mi dilettavo della verità. Non volevo essere ingannato; ero dotato di una memoria vigorosa; apprendevo l’arte della parola; mi sentivo accarezzato dall’amicizia; rifuggivo il dolore, l’abiezione, l’ignoranza. Ma tutte queste cose sono doni del mio Dio”.
Nello stesso tempo non teme di esaminare il suo comportamento scorretto nei confronti di Dio, di cui lui stesso trascurava le leggi morali: “Vedi, Signore Dio, come con diligenza gli uomini osservano le regole (della pronuncia) delle lettere e delle sillabe trasmesse loro da precedenti dicitori, e sono propensi a trascurare le eterne leggi della salvezza trasmesse da te”.
Nella sua adolescenza, come tutti gli adolescenti anche di oggi, Agostino era tutto preso dal sentimento dell’amore, anche se alquanto torbido: “E che cosa era ciò che mi dilettava se non amare ed essere amato?”. Sì torbido, come riconosce lui stesso riportando la sua limacciosa esperienza di un amore che invece di essere puro si trasformava in ricerca turbinosa della libidine, cioè del piacere sensuale: “Ma (da parte mia) non veniva tenuta la giusta misura da un’anima ad un’altra anima, fin dove sta il confine di una luminosa amicizia, ma esalavano nebbie dalla limacciosa concupiscenza della carne e dalla scaturigine della pubertà e obnubilavano e offuscavano il mio cuore, perché si compisse il discernimento tra la serenità dell’affetto e la caligine della libidine... Ero divenuto sordo a causa dello stridore della catena della mia mortalità, una giusta pena alla superbia della mia anima”. Quando scrive quella triste e avventurosa esperienza, da Vescovo, all’età di 43 anni, avverte una sorta di silenzio di Dio, che comunque lo seguiva senza dare segnali particolari: “me ne andavo troppo lontano da Te, e Tu lo permettevi, e mi agitavo e mi disperdevo e straripavo e ribollivo a causa delle mie fornicazioni, e Tu tacevi!”.
Agostino ricorda anche i sentimenti di profonda e amara delusione dei suoi ribollimenti e traviamenti, a cominciare soprattutto dai quindici anni: “Io invece, misero, ribollii, seguendo l’impeto del mio flusso (di passioni), una volta abbandonato Te; e travalicai tutti i tuoi legittimi limiti e (così) non sfuggii ai tuoi flagelli. Infatti, pur incrudelendo contro di me eri vicino a me con la tua misericordia e aspergendo di amarissimo senso del disgusto tutti i miei illeciti piaceri... Dove ero, e quanto me ne andavo in esilio lontano dalle delizie della tua casa in quel famoso sedicesimo anno di età della mia carne, quando la frenesia della libidine licenziosa ha preso lo scettro in me e le diedi interamente le mie mani?”.
Insomma, quel sedicesimo anno, passato nell’ozio, rimase inciso come sulla pietra nella memoria di Agostino, che si sentiva andare alla deriva senza che nessuno potesse trattenerlo: “Ma quando in quel mio famoso sedicesimo anno, essendosi interrotto lo studio per necessità familiari (difficoltà economiche), reso libero dalle occupazioni di qualsiasi genere di scuola, cominciai a stare con i genitori, i rovi delle libidini superarono il mio capo e non vi era alcuna mano che me li sradicasse”.
† Giuseppe Zenti
Vescovo di Verona
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