Commento al Vangelo domenicale
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Le virtù cardinali finalizzate alla beatitudine eterna

Sugli impulsi naturali la natura ha previsto alcune virtù con la mediazione dell’educazione. Tra di esse la prudenza, “mediante la quale si frenano le libidini carnali, affinché non traggano consenziente la mente in qualsiasi azione turpe” (De civ. Dei, XIX, 4.3).

Parole chiave: Sant'Agostino (190), La Città di Dio (66), Mons. Giuseppe Zenti (330), Vescovo di Verona (247)

Sugli impulsi naturali la natura ha previsto alcune virtù con la mediazione dell’educazione. Tra di esse la prudenza, “mediante la quale si frenano le libidini carnali, affinché non traggano consenziente la mente in qualsiasi azione turpe” (De civ. Dei, XIX, 4.3). D’accordo, sottolinea Agostino con la forza della citazione di Paolo: “La carne ha desideri contrari allo spirito” (Gal 5,15). In effetti, “che cosa vogliamo fare, quando vogliamo che sia conseguito il fine del sommo bene, se non che la carne non concupisca contro lo spirito… e di non essere indotti a commettere il peccato con il nostro consenso?” (Ivi). A questo punto, dopo aver dato risalto, quasi punto di convergenza, alla temperanza, rimette in rete le quattro virtù cardinali, a cominciare dalla prudenza, che “con tutta la sua vigilanza discerne il bene dal male, affinché nel compiere l’uno e nell’evitare l’altro non si insinui l’errore” (De civ. Dei, XIX, 4.4). Compito altamente educativo il suo: “Insegna infatti che il male è acconsentire a peccare e che il bene è non consentire alla libidine di peccare” (Ivi). Segue la temperanza, grazie alla quale “ciò che la prudenza ci insegna a non consentire, essa lo fa” (Ivi). E la giustizia “il cui compito è assegnare a ciascuno il suo” (Ivi)? Viene in soccorso alla prudenza e alla giustizia, che da sole non sono in grado di togliere il male dal mondo. Grazie alla giustizia “ne consegue il giusto ordine di natura nell’uomo stesso, così che l’anima si sottomette a Dio e il corpo all’anima, e di conseguenza a Dio si sottomettono sia l’anima, sia il corpo… Di sicuro l’anima tanto meno si sottomette a Dio, quanto meno nei suoi stessi pensieri accoglie Dio; e tanto meno la carne è soggetta all’anima quanto più concupisce contro lo spirito” (Ivi). Infine “quella virtù denominata fortezza, in una qualsiasi pur grande saggezza è testimone assai evidente dei mali umani, che è costretta a tollerare con pazienza” (Ivi).

Agostino si dice stupito del fatto che gli stoici, per liberarsi da questi mali, “siano costretti a infliggersi la morte e ad uscire da questa vita” (Ivi). Perciò non risparmia loro una severa critica: proprio perché pensano di costruirsi da se stessi la felicità nell’unica possibilità data dalla vita presente, rivelano la loro insensatezza intrisa di orgoglio (Cfr. Ivi). Di fatto non credono alla virtù della fortezza. Condivide il loro pensiero quando affermano che essere in armonia con se stessi è il più grande richiamo, la più forte voce, una sorta di istinto naturale che sospinge l’uomo “a riconciliarsi con se stesso e, di conseguenza, a fuggire la morte per istinto naturale; così amico di sé da volere con ardore e bramare di essere una creatura animata e di vivere nell’unione di anima e di corpo” (Ivi). Le virtù vere, precisa Agostino, sono quelle che, nonostante i gravi mali di questo mondo, assicurano che anche la vita presente “sia beata nella speranza del secolo futuro, come anche salva” (Ivi). Benché dunque non siamo già liberati dalla morte e non siamo in possesso della beatitudine, attendiamo queste realtà nel futuro, grazie alla fortezza (Cfr. Ivi). Nella vita presente “siamo nei mali, che con pazienza dobbiamo sopportare, finché perveniamo a quei beni, nei quali ci saranno tutte le cose da cui saremo dilettati in modo ineffabile, mentre non ci sarà nulla che dobbiamo tollerare. Tale salvezza, che ci sarà nel mondo futuro, proprio essa sarà la beatitudine finale” (Ivi).

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