Un film che rende omaggio alla Shoah
Il figlio di Saul
(Ungheria, 2015)
regia: Làszlò Nemesz
con: Géza Rohrig, Levante Molnar, Urs Rechn
durata: 107’
Giudizio Cnvf: consigliabile/problematico/dibattiti
Nei giorni che hanno preceduto la celebrazione del Giorno della Memoria (27 gennaio) sono usciti al cinema tre film di grande valore. È una buonissima notizia perché, diciamolo, negli anni scorsi è toccato in sorte di vedere opere di mediocre livello e, sia chiaro, un brutto film rende un pessimo servizio sia al cinema che al ricordo di tragedie come la Shoah.
I tre film sono: Il labirinto del silenzio (Germania, 2014) dell’italo-tedesco Giulio Ricciarelli, Una volta nella vita (Francia, 2014) di Marie-Castille Mention-Schaar e questo splendido e dolente Il figlio di Saul.
È significativo che un’opera di questa intensità morale arrivi dalla cinematografia di uno di quei Paesi dell’ex-blocco sovietico (l’Ungheria, ma anche la Romania e la Polonia) che sembrano declinare pericolosamente verso populismi e razzismi di tristissima fattura.
Làsxlo Nemesz, alla sua opera prima, raccontandoci una storia di campo di concentramento, ci ripropone uno dei più antichi e nobili modelli della nostra cultura: quello che contrappone l’aridità di una legge applicata alla lettera senza comprensione umana (Creonte) alla ribellione di chi pone in primo e assoluto piano le relazioni, i sentimenti, il rispetto (Antigone).
Qui Antigone è un uomo, Saul Auslander, ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau, al quale viene assegnato il ruolo di sonderkommando, cioè di “operaio” che deve rimuovere i corpi dei deportati uccisi nelle camere a gas e portarli alla cremazione. Fino a quando nel cadavere di un ragazzino crede di riconoscere suo figlio, e comincia la sua disperata battaglia per fargli ottenere una degna sepoltura, accompagnata, come richiede il suo credo religioso, da un rabbino che reciti le preghiere funebri.
Racconta Ascanio Celestini in un libro di recente uscita che gli capitò di vedere il programma di una “gita scolastica ad Auschwitz”, che prevedeva al terzo giorno, dopo la visita al campo di concentramento, un tour di shopping in giro per Cracovia perché, a parere degli insegnanti, era necessario render più lieto il soggiorno degli studenti.
Nel film di Nemesz, così non può esser altrimenti, non vi è nulla di lieto né di rasserenante né di pacificatorio. Ma è un inferno che va attraversato, se non si vuole essere ipocriti anche al cinema. Se ne esce turbati e commossi, e, come succede per le grandi opere d’arte, trasformati.