“Pelé” inizia bene poi si perde in melina
Pelé
(Usa, 2016)
regia: Jeff e Michael Zimbalist
con: Kevin de Paula, Leonardo Lima Carvalho, Diego Boneta, Vincent D’Onofrio
durata: 107’
C’è una vecchia regola non scritta nella storia del cinema, secondo la quale non tutte le pratiche sportive sono filmabili con esiti convincenti.
Se, ad esempio, il pugilato si presta benissimo a ritmi, stacchi di montaggio, inquadrature e dettagli, altri sport, come ad esempio il calcio, non rendono allo stesso modo.
In anno di Campionati europei e di Coppa America l’uscita sugli schermi italiani di questo biopic dedicato ad uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi sembra confermare questa regola.
Edson Arantes do Nascimento, nato nel 1940, ha riassunto nella sua vita e nella sua carriera molti elementi che sarebbero degni di un romanzo e di un’ottima sceneggiatura. Sembrava lo avessero capito bene i due registi di questo film, che infatti partono da un momento storico del calcio brasiliano, ricordato come uno dei giorni più bui non solo dal punto di vista strettamente sportivo, e cioè quel 16 luglio 1950 in cui la nazionale verdeoro affrontava in casa, al Maracanà, quella dell’Uruguay, per la finale dei mondiali. Erano anche andati in vantaggio, i brasiliani, dando l’illusione che la vittoria che tutti attendevano e davano per scontata fosse solo una pratica da sbrigare. Poi le reti di Schiaffino e Ghiggia portarono al trionfo l’Uruguay e alla disperazione milioni di tifosi in tutta la grande nazione brasiliana.
Il piccolo Edson, detto Dico, piange insieme al padre all’inizio del film proprio in quel giorno drammatico. Il racconto viene così incentrato sul tema del riscatto, di un singolo, di una famiglia, di una nazione intera. Seguiremo così la nascita di una delle massime espressioni dell’arte calcistica, che verrà soprannominato Pelé in senso quasi dispregiativo da un compagno di strada (perché il ragazzino pronunciava male il cognome di un portiere che si chiamava Bilè), e che esordirà nel campionato brasiliano a sedici anni con la maglia del Santos e l’anno dopo in nazionale, partecipando alla vittoria nel mondiale svedese del 1958 e guidando il Brasile anche nel 1962 in Cile e nel 1970 in Messico, contribuendo al record dell’unica nazionale che fin qui abbia vinto tre volte la Coppa del Mondo.
Purtroppo il film dei Zimbalist si perde quasi subito nel registro melodrammatico di basso livello, con una serie di soluzioni narrative che, per restare in gergo calcistico, si direbbero “telefonate”, cioè prevedibili e senza passione.
Un peccato, perché l’occasione sarebbe stata ghiotta e in questo caso possiamo decisamente concludere che sia stata sprecata.