Il prete, uomo di relazione là dove la gente non lo cerca
di PAOLO ANNECHINI
Tornato in Italia dopo 25 anni di missione in Uruguay, don Carazzolo racconta la sua esperienza
di PAOLO ANNECHINI
Don Zeno Carazzolo, 87 anni, originario di Bonavicina, nel comune di San Pietro di Morubio, da due mesi è rientrato definitivamente dalla missione in Uruguay.
C’è stato in tutto 25 anni, in due periodi, dal 1971 al 1978 e dal 2004 al 2022. «Gli anni passano, ed è giusto così», ci dice don Zeno con il suo consueto sorriso. Ora fa parte della comunità presbiterale di Rosaro, assieme a mons. Ottavio Todeschini e mons. Luigi Verzè, amici da sempre. Lo abbiamo intervistato.
– Don Zeno, cosa ha fatto in questi 25 anni di missione in Uruguay?
«Sono sempre stato nella diocesi di Salto e sempre mi sono occupato di pastorale facendo il parroco, sia nella prima che nella seconda esperienza missionaria. In situazioni diverse, ma sempre a contatto con la gente, soprattutto la più povera. Perché la povertà, in Uruguay, non è da sottovalutare, e in questi anni di Covid, è esplosa».
– Per un missionario lavorare in Uruguay…
«Non è come lavorare in Brasile, ce lo siamo sempre detti! Il brasiliano dopo un’ora ti accoglie a casa sua, un uruguiano non lo farà mai. Prima ti studia, valuta le tue intenzioni, poi però possono nascere amicizie molto profonde. Per un missionario lavorare in Uruguay vuol dire avere parrocchie estese come la diocesi di Verona: penso a quella di Guichon, dove abbiamo lavorato molto come preti veronesi. La mia ultima parrocchia a Salto aveva 35mila abitanti su un territorio molto esteso. È difficile fare paragoni con la realtà pastorale di Verona o dell’Italia. Il problema è anche poter mettersi in comunicazione con la gente, che apparentemente sembra non aver bisogno né del prete né della religione. Quindi tu cosa fai?».
– Appunto, cosa fai?
«Bisogna entrare in relazione con le persone e scopri bisogni spirituali profondi, però devi essere tu a cercare la gente, la gente non ti cercherà mai. L’Uruguay è il paese più laico dell’America Latina: non si fa religione a scuola, nessun simbolo o festa nella vita civile, tutta l’evangelizzazione si fa solo in parrocchia. La partecipazione alle celebrazioni è meno del 2%, però ci sono dei momenti preziosi di pastorale: penso ai battesimi ai quali gli uruguaiani tengono molto e al momento della morte. Non c’è il funerale, al massimo si fa una preghiera chiesta dai famigliari prima di avviare la salma al cimitero. Ambedue sono occasioni nelle quali è la gente che ti chiama. I battesimi sono preceduti da tre incontri con i genitori e padrini/madrine. E spesso questa relazione continua anche dopo se la ritengono significativa».
– È contento di aver fatto il prete per 25 anni in Uruguay?
«Sì, molto contento, gli uruguaiani ti costringono a ricercare i fondamenti della tua fede, devi guardare cos’è l’essenziale della tua fede e cosa è secondario. Soprattutto distinguere tra Vangelo e religione. Il Vangelo è di Dio, la religione con i suoi riti l’abbiamo costruita noi».
– E all’uruguaiano cosa interessa?
«Senza dubbio molto più il Vangelo che la religione. La gente non è attratta dai riti e dalle celebrazioni. Ma questo vuol dire poco. Durante la pandemia ho visto un Uruguay sofferente ma anche la sua parte solidale: nella zona della mia parrocchia nella città di Salto sono state attivate 50 “pentole popolari”, ovvero mense improvvisate, sulla strada, che distribuivano ogni giorno cibo ai poveri – nel frattempo raddoppiati – e latte in polvere per i bambini. Non era una attività della Chiesa, era gente che spontaneamente si è organizzata in nome di una umanità da coltivare. Da lì viene spontanea una riflessione».
– Quale?
«L’amore alla gente è quello che conta. Sai cos’è che cambia il mondo? Quando dominano l’amore, la bontà, il rispetto, allora cambia il mondo. Quando invece succede il contrario come adesso in Ucraina e in tante altre parti del mondo, quando dominano la prepotenza, l’interesse e l’egoismo, la gente non vale più nulla e si producono montagne di morti. Questo l’ho vissuto come esperienza personale in due anni di pandemia in Uruguay, che sono stati durissimi per tutti».
– Non le pesava dover fare 70-80 km per celebrare Messa con cinque persone?
«Sono ritornato a Guichon dopo 25 anni e nella Messa domenicale, l’unica, in chiesa eravamo in sette. Poi piano piano le cose sono cambiate. Ma sono sempre stato molto sereno: Gesù ha iniziato con quattro persone ed è arrivato a dodici (e ride, ndr). Non sono i numeri che contano, l’importante è esserci».
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