Le due ultime richieste
Fa impressione la parola “tentazione”. Evoca l’intervento di satana, il tentatore, intenzionato a distoglierci da Dio, come ha fatto con i progenitori, insinuando il dubbio sulla benevolenza divina. Lo discredita: “Dio non vi vuole felici, perché non vi vuole come lui, conoscitori del bene e del male”. Stravolge la realtà. È padre della menzogna. Si insinua ovunque. Gli basta una breccia, una mancata sorveglianza. Basta un’imprudenza. Soprattutto la superbia è la sua password per entrare nel cuore dell’uomo...
Fa impressione la parola “tentazione”. Evoca l’intervento di satana, il tentatore, intenzionato a distoglierci da Dio, come ha fatto con i progenitori, insinuando il dubbio sulla benevolenza divina. Lo discredita: “Dio non vi vuole felici, perché non vi vuole come lui, conoscitori del bene e del male”. Stravolge la realtà. È padre della menzogna. Si insinua ovunque. Gli basta una breccia, una mancata sorveglianza. Basta un’imprudenza. Soprattutto la superbia è la sua password per entrare nel cuore dell’uomo. Ci insidia con i suoi mille tentacoli: le passioni, i vizi capitali, su cui fa leva. Suggestiona e lusinga con i miraggi e dunque seduce. In definitiva la tentazione è il tentativo di satana di sedurci, cioè di portarci dalla sua parte.
Non abbandonarci alla tentazione
Nessuno è immunizzato dalle “tentazioni”. Anzi, Dio le “permette”, non nel senso che dà il suo consenso, ma nel senso che non le impedisce. Il motivo? Possono trasformarsi in occasione di prova singolare di fedeltà a Lui, che però ci assicura tutte le grazie necessarie. In questa condizione “quotidiana” chiediamo al Padre di non lasciarci andare alla deriva, in balia delle tentazioni, delle seduzioni di satana.
Tuttavia, il termine usato dal Vangelo e tradotto come tentazione è peirasmòs. Il suo valore semantico è “prova”. Tutta la vita dell’uomo sulla terra è una prova. Tra le prove indubbiamente si collocano anche le tentazioni, cioè le seduzioni e le suggestioni di satana. Tuttavia, mentre il termine tentazione evoca senso di pericolo, di negatività, il termine prova suggerisce un valore esplicitamente positivo: un’occasione, un’opportunità, un kairòs per dimostrare il proprio valore, come gli atleti. Il testo originario letteralmente si esprime così: “Non portarci dentro situazioni di prova”. Dunque, sarebbe Dio che ci mette alla prova? In realtà, l’espressione letterale è voce di quella cultura antica che non conosceva le cause seconde. Tutto era attribuito, come principio causale, alla divinità: il bene e il male. Così, ad esempio, sull’Olimpo si decidevano le guerre o le tregue tra i popoli, come nel caso di Roma e Cartagine. Gli eserciti e i loro generali erano delle pedine che eseguivano le decisioni delle divinità. In realtà, una volta focalizzato culturalmente il tema delle cause seconde, cioè immediate e reali, va da sé che causa delle prove, di cui è intessuta la vita, non è Dio, ma appunto le cause seconde, come per le guerre puniche fu la volontà espansionista di Roma. Di fatto, le cause seconde sono la natura, con i terremoti, maremoti, tifoni, bombe d’acqua, le malattie, la morte; e l’uomo con le sue cattiverie e senso di irresponsabilità, le sue imprudenze, l’insensibilità, gli egoismi, l’incuria dell’ambiente, il consumismo, la smania di potere politico, economico e finanziario, la produzione di gas serra e di virus e batteri, gli incidenti gravi per imprudenza, gli incidenti sul lavoro, i tradimenti, le infedeltà, le crisi di ogni genere, a cominciare da quella occupazionale. Poiché dunque le prove non sono causate da Dio, chiediamo al Padre di starci vicino, di soccorrerci, di non lasciarci soli quando siamo sopraffatti dalle prove. Per cui si potrebbe dire: “Soccorrici nella prova”, per non soccombere. Da notare poi che satana si insinua con la sua malvagia presenza anche in quelle prove che in se stesse non hanno natura di tentazione, come le tribolazioni. Con la sua astuzia insinua l’idea che Dio proprio nel momento del bisogno non venga in soccorso. Il linguaggio risulta espresso in forma negativa: “Non abbandonarci”; ma più rispondente alla sensibilità dell’uomo d’oggi è quello di “soccorrici”, da Padre, più interessato di noi alla nostra salvezza, a superare le prove, qualunque esse siano, come atto di fedeltà a Dio. Del resto, come precisa sant’Agostino, le prove sono come il fuoco del crogiolo: se il soggetto ha la consistenza dell’oro ne viene purificato, se è paglia viene incenerito.
Ma liberaci dal male
C’è un sostantivo: poneroù (male, maligno) e un verbo: rùomai (liberare, proteggere). Poiché il male, di matrice culturale manichea, in sé non esiste, in quanto è una privazione di una cosa dovuta, secondo la geniale intuizione di sant’Agostino, come le tenebre sono privazione di luce, il testo evoca con tutta probabilità il maligno, satana, il diavolo, a cui fa riferimento Gesù: “Non prego che Tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno” (Gv 17,15). L’uomo, come già i progenitori, ha a che fare con la personificazione creaturale del male, che mira a privare l’uomo del bene che ha ricevuto da Dio. Ecco la prova suprema: da che parte decidersi! Comportandosi come desidera Dio o come seduce satana?
Il verbo ruomai ha due significati: liberare, ma, più frequentemente, proteggere. Nell’insieme della preghiera è preferibile proteggere: “Proteggici dal maligno!”. Ma nel caso in cui l’uomo sia già prigioniero di satana, vale il “liberaci dal maligno”. Proteggici e liberaci tutti insieme, poiché come il peccato ha effetti e ricadute collettive, così la liberazione o protezione ha effetto comunionale comunitario. Va a beneficio di tutti.
Amen
Questa preghiera è degna di fede. È roccia su cui edificare il vivere quotidiano. Fa parte del patrimonio autentico e integro della fede della Chiesa.
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