Muti fa risuonare al meglio la gravitas di Bruckner
Esiste una parola, nella lingua latina, la quale designa l’insieme delle virtù massime cui l’uomo romano poteva attingere, vale a dire la lealtà verso i suoi amici, la devozione alla divinità, il coraggio in guerra: gravitas. Non c’è traduzione letterale di un termine che doveva esprimere rigore ma sentimento...
Esiste una parola, nella lingua latina, la quale designa l’insieme delle virtù massime cui l’uomo romano poteva attingere, vale a dire la lealtà verso i suoi amici, la devozione alla divinità, il coraggio in guerra: gravitas. Non c’è traduzione letterale di un termine che doveva esprimere rigore ma sentimento, dovere ma entusiasmo, rispetto ma spiritualità, tutte qualità che di banalmente “grave” o “pesante” non hanno proprio nulla, a meno di considerare tali l’impegno e la serietà che rendono il nostro passare nel mondo degno di essere vissuto. Se esiste un compositore che di tale gravitas può rappresentare l’epitome, questi è Anton Bruckner, il quale ha segnato l’ultima metà del secolo XIX con il corpus delle sue sinfonie e delle sue Messe, uno degli ultimi bagliori assertivi di senso, poesia e verità, prima dei disincanti e dei dubbi novecenteschi. Ed esiste oggi un direttore d’orchestra che meglio di altri sa rendere l’utopia estrema di un compositore inattuale, Riccardo Muti, che consegna a un cd edito da Deutsche Grammophon la sua lettura della Sinfonia n. 2 in Do minore, compiuta in concerto alla testa della Filarmonica di Vienna, al Festival di Salisburgo del 2016. È uno strano destino, quello di Muti: poco più giovane di Claudio Abbado, e in qualche modo di lui concorrente, non gode di soverchia stima presso la critica italiana, che un po’ troppo spesso lo accusa di esecuzioni effettistiche, paragonandolo (a sproposito) appunto alla finezza suprema di Abbado, specie nel versante sinfonico. Accuse di “pesantezza”, appunto: ma, giusta il lemma latino proposto all’inizio, vorremmo invece lodare di questo Bruckner l’esattissima gravitas. Perché Muti possiede tutte le caratteristiche per far risuonare al meglio il carattere di questo sinfonismo: suono rotondo, corposo, massiccio; dinamiche che cercano l’estremo clangore quale segno dell’acme drammatico e dell’ascesi mistica; fraseggio scandito su un impulso ritmico teso fino all’implacabile. Una concezione della musica che di Bruckner esalta lo slancio vitale, la spiritualità accesa, l’utopia titanica, vale a dire la sua stessa essenza idiomatica.
Si ascolti l’Andante: il movimento, di per sé, è un Rondò a due temi con variazioni, ma gli elementi che lo costituiscono sono una serie di figurazioni desunte dalla musica liturgica antica: un corale in apertura, le pause utilizzate come simbolo di silenzio, sequenze ascensionali in crescendo, e altro ancora (Alberto Fassone ne dà un’analisi nella sua monografia del 2005). Il direttore, in questo caso, deve porre in evidenza gli elementi di cui sopra, ed è così che Riccardo Muti fornisce il saggio migliore della sua arte, stagliando uno ad uno i vari tasselli della tessitura musicale/spirituale, variando continuamente dinamica e fraseggio, scolpendo dunque le frasi, gli incisi, i motivi e le variazioni con una trasparenza cui i contrasti poderosi di volumi sonori apportano non retorica, bensì eloquenza. Così, il breve dialogo tra violino e flauto nella coda del movimento può risuonare quasi smaterializzato, come fosse una preghiera: se è vero che con una delle orchestre migliori del mondo quale la viennese tali effetti si possono ottenere con agio, è tuttavia indubitabile che sia lo sguardo analitico del concertatore che trasforma i segni della partitura in una tale esperienza di metafisica bellezza. Muti insomma coglie, nella sua interpretazione, la gravitas della scrittura di Bruckner: anche solo questo rende il disco imperdibile.
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