L’età d’argento della cultura russa nell’ultimo cd di Daniil Trifonov
“L’età d’argento”: così gli slavisti sono soliti denominare la fase della cultura russa che principia nell’ultimo decennio del 1800 e si protrae per un cinquantennio circa
“L’età d’argento”: così gli slavisti sono soliti denominare la fase della cultura russa che principia nell’ultimo decennio del 1800 e si protrae per un cinquantennio circa. Un’era di grandi letterati, pur tuttavia non sommi come nell’aureo periodo di Dostoevskij e Tolstoj, la quale è caratterizzata sì da un idiomatico simbolismo di base, eppure anche da un rifrangersi di caratteri differenti, spesso in conflitto tra loro, che troviamo nella poesia di Blok, di Mandel’stam, oppure nelle prime opere di Pasternak. Per la musica, sono gli anni di Scriabin, Stravinsky, Prokofev, e a questi tre compositori il pianista russo Daniil Trifonov dedica il suo ultimo doppio cd edito da Deutsche Grammophon, intitolato appunto Silver Age (nella foto in basso), nel quale troviamo due concerti per pianoforte e orchestra (Valery Gergiev dirige i complessi del Teatro Marinsky) e una raccolta di brani solistici. Senza seguire un ordine cronologico, concentriamo l’attenzione su Stravinsky: nella Serenata in la del 1925 la rivisitazione di modelli settecenteschi secondo un idioma invece modernissimo produce un formidabile straniamento, un impatto percettivo che conduce verso una simbolizzazione del gesto ad un tempo ricostruttivo e decostruttivo, quale immagine ironica e drammatica di una forma che cerca se stessa, componendo il passato idealizzato allo spasmo contemporaneo. Abbiamo poi i celebri Tre movimenti da Petrouchka, classico del virtuosismo trascendentale che sintetizza nel 1921 la partitura orchestrale del balletto composto nel 1911. Qui il trattamento percussivo dello strumento, il ritmo travolgente, le improvvise stasi lirico-meditative si strutturano in un dinamismo incessante del tutto in linea con i movimenti d’avanguardia di inizio secolo. Ed è un qualcosa che, in architettura più tradizionale, udiamo anche nella Sonata n. 8 di Prokofev del 1944: ascoltando l’impeto motorio dell’ultimo movimento, l’asprezza timbrica, il convulso dipanarsi delle linee di contrappunto, l’aprirsi improvviso dell’oasi lirica, il collegamento tra i due Maestri avviene senz’altro nell’analoga tensione verso la saturazione di tutti i parametri: una visione del caos, il quale è superato dallo sguardo superiore che compone, appunto, le stridenti differenze nell’unità.
Il Concerto per pianoforte e orchestra, op. 20 di Scriabin, del 1896, si sviluppa secondo linee diverse. Il compositore riteneva che la musica del suo tempo fosse diventata troppo meccanica, ciò che rendeva impossibile quanto per lui era essenziale, cioè plasmare nella musica “lo spirito divino”. Sentiamo dunque con evidenza plastica il decadentismo di fine ’800, la tensione verso l’opera assoluta che riesca a dare forma al Mistero, nella “foresta di simboli” che la Natura (e quindi anche il suono, che della Natura è parte) propone all’uomo che è chiamato a decifrarli. Così, la sua scrittura mette allo stesso livello orchestra e solista, in un magma sonoro ribollente di timbri cangianti, senza lo scontro drammatico delle parti tipico della tradizione, ma invece ottenendo l’unità di una melodia continua, incessante dal principio al termine. In questa coesione organica è il simbolo primario della sua arte, in cui l’espansione spaziale del pianoforte nell’orchestra, e viceversa, è il segno dell’Unità, dell’essere infinito nel tutto e ovunque.
Formidabile, “l’epoca d’argento”, dall’irrazionale di Scriabin all’iperrazionale di Stravinsky. E bravissimo Trifonov, tanto nell’interpretazione che nel concetto culturale alla base di questo progetto.
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