Un canto di speranza che reca conforto al cuore
David Maria Turoldo
Il mio vecchio Friuli
Biblioteca dell’Immagine
Pordenone 2001
pp. 110 – Euro 10
In questo “inverno del nostro scontento” dove la vita – per dirla con i versi di Eugenio Montale – è “una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” che provocano ferite profonde e dolori senza fine, siamo tutti alla ricerca di parole vere che diano conforto e speranza. I poeti sono i cantori più alti di questo anelito. Non sembri dunque strano se recensiamo un libriccino scritto, ben 41 anni fa, da padre David Maria Turoldo (1916-1992), frate dei Servi di Maria, predicatore, scrittore e poeta innamorato degli uomini e di Dio.
Sono racconti autobiografici che descrivono l’infanzia dell’autore vissuta nel piccolo paese friulano di Coderno (frazione del Comune di Sedagliano, in provincia di Udine, ndr), fatta di derisione per la sua bruttezza fisica e di pesante miseria (Turoldo era l’ultimo di nove figli di una povera famiglia contadina), le sue radici profonde, anche dopo la decisione di diventare prete trasferendosi a Milano, con la “piccola patria” friulana che porta sempre nel cuore, il ritorno nel suo Friuli colpito dal terribile terremoto del maggio 1976 dove tra la sua gente non trova rassegnazione ma voglia di ricostruire le case, i paesi con le osterie, le scuole e le chiese per tornare ad avere una patria dove anche i tantissimi emigranti di una terra aspra e arcigna possano riconoscere il proprio focolare. Sono pagine dure, commoventi, dove la speranza cristiana alimenta la speranza umana e dà un senso provvidenziale anche al male e alla morte.
Due in particolare i racconti che suscitano profonda commozione. Il primo intitolato “Polenta mia” l’unico cibo che era presente sulla povera tavola e che scandiva le ore canoniche del giorno: “mattina, latte e polenta; mezzogiorno, minestra e polenta; la sera, radicchio e ancora polenta”.
Ancor più straordinario è il racconto dedicato alla madre. Un ricordo affettuosissimo fatto non di parole ma di sentimenti profondi che lo legavano a questa donna minuta, sempre vestita di nero come tutte le donne friulane, intenta – lungo il giorno e per larga parte della notte – al duro lavoro di casa e del campo. Il 2 ottobre 1947 la rivede stesa sulla stessa tavola dove la famiglia mangiava, “immobile, vestita e pronta, bella che pareva una sposa”. Suonava l’ultima campana che invitava i paesani al funerale. Portata a spalle lascia la povera casa e per la prima volta – scrive commosso il figlio – andava “finalmente senza più fatica”. Questi racconti sono uno straordinario canto di speranza che conforta il cuore nei tempi oscuri e smarriti che stiamo vivendo.
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