La filosofia all’acqua di rose del libro di Kehlmann
Daniel Kehlmann
I fratelli Friedland
Feltrinelli - Milano 2015
pagg. 270 - 17 euro
Un padre (Arthur) partecipa con i suoi tre figli (Martin, Ivan ed Eric) allo spettacolo di ipnosi allestito dal grande Lindemann. Quest’ultimo unisce tutte le bocche dei presenti in un’unica forma, la “o” della meraviglia, ma senza irretire i Friedland nella sua arte. Come lapilli schizzati da un’esplosione vulcanica, i quattro si dividono in altrettante direzioni: il padre a cercare la strada della consacrazione come scrittore, i figli a seminare il mondo di imposture (Martin come prete, Ivan come pittore e critico d’arte, Eric come consulente finanziario). È questa, probabilmente, la pillola di genialità del romanzo: far partire tutto da uno spettacolo dove scienza, arte e magia sembrano sfumate nei loro confini, e dare inizio a quattro distinte vicende in cui la linea di demarcazione fra realtà e finzione è altrettanto sfumata.
Arthur, infatti, fa della ricerca di fama letteraria l’occasione per diffondere un proprio credo di matrice riduzionista, secondo cui niente è come sembra e tutto quanto esiste è spiegabile a partire dagli elementi di cui è composto. I figli, invece, con più o meno rischi, si danno da fare nello spazio grigio poco sopra evocato, dove realtà e apparenza sono difficilmente distinguibili. Martin, il prete, impiega le migliori energie battendo record con il cubo di Rubik e dispensa stancamente parole di consolazione, senza minimamente credere in Dio. Eric passa la vita al cellulare, contattando clienti, trovando un difficile equilibrio fra appuntamenti di lavoro e parentesi adulterine, il tutto condito dal timore di essere intercettato e ricattato. Ivan ha trovato una sua collocazione nel mondo come critico d’arte e come pittore tecnicamente dotato, ma a corto d’ispirazione. Nessuno – né padre né figli – ha incontrato una scintilla di felicità che metta davvero in moto la propria esistenza.
A condurre finalmente a termine la storia raccontata da Kehlmann contribuiscono la scomparsa di Ivan, gemello di Eric, e la tristemente celebre crisi finanziaria del 2008, ma senza che il finale inaspettato susciti emozioni e palpiti degni di menzione nel lettore.
Seconda e terza di copertina annunciano la conferma di una stella nata da poco nel cielo della letteratura, anche se l’irritante piattezza della prosa fa il pari significativamente desolante con la debolezza della trama – debolezza inseguita e coltivata, sembrerebbe, come ideale estetico ed etico. Arricchisce l’ingannevole blandizie pubblicitaria la promessa di un bagno nella cultura filosofica, che avrebbe trovato nel romanzo qui recensito esemplare accoglienza. È vero, emergono qua e là questioni di ordine metafisico, ma che altrove, sempre in letteratura, hanno trovato più umile, più utile, più acuta capacità di porle, senza per forza dover dare un volto caricaturale alla teologia, rea qui di presentare curve a gomito all’inesorabile percorso della ragione.
Volendo per forza salvare qualcosa nella concezione, tutt’altro che immacolata, del romanzo in parola, parrebbe di doverla trovare nell’idea di secolarizzazione sottesa allo scritto: è il disincanto, l’irreversibile distinzione fra mondo degli esseri superiori e la sfera quotidiana, che il filosofo canadese Charles Taylor spiega ed illustra con mezzi ben più raffinati. Al quarantenne tedesco Kehlmann va indubbiamente riconosciuto il merito di “muovere” il quadro, per altro già complesso, presentato da Taylor, ammesso che la nostra ipotesi interpretativa goda di plausibilità. Alla fine, Martin persiste nella sua incredulità e vi insiste, celebrando le sue liturgie senza paura di prendere in giro Dio, visto che, a dir suo, non ne esiste alcuno. Eric, da parte sua, è stato folgorato sulla via di Damasco: da cinico consulente finanziario, da cittadino di un mondo il cui cielo ha chiuso da tempo le serrande, è diventato credente, leggendo nella crisi finanziaria un segno di quel Dio che è capace di acciuffare il credente e di porlo in salvo.