Perché a Massimo Gramellini non piace l’omelia del nostro don Matteo?
Caro Massimo, esordisco col tono confidenziale, vuoi per la comune attività giornalistica, vuoi per la mia anagrafe di iscrizione allo stuolo dei professionisti, quando tu forse non immaginavi ancora dove la vita e il merito ti avrebbero portato...
Caro Massimo, esordisco col tono confidenziale, vuoi per la comune attività giornalistica, vuoi per la mia anagrafe di iscrizione allo stuolo dei professionisti, quando tu forse non immaginavi ancora dove la vita e il merito ti avrebbero portato. Non è una premessa per giustificare un affondo. La tua bravura merita soltanto l’applauso. La tua maestria nell’uso delle parole è pari soltanto alla ricchezza d’animo che lasci trasparire nel tuo argomentare. I tuoi pezzi quotidiani, sul Corriere, da soli valgono l’acquisto del giornale.
Premesse che giustificano la sorpresa leggendo il tuo pezzo su don Matteo, il prete veronese che ha tenuto l’omelia prendendo spunto dalle canzoni di Sanremo e che tu presenti come don Parade, a memoria della vecchia Hit, con inequivocabile intenzionalità. C’è un’affermazione di fondo che fa da volano alla tua critica, là dove tu affermi che è il senso del sacro ciò di cui i giovani hanno più fame. Con parole mie, direi che è il senso del mistero ciò che essi cercano, considerato che qualche volta il sacro rischia di fermarsi sulla soglia delle tradizioni, senza arrivare a Dio. E ti interroghi se lo svuotamento delle chiese, più che dal suono dell’organo, non dipenda dall’evanescenza di certe omelie, fino a domandarti se per piacere ai giovani sia proprio necessario fare ciò che loro sanno fare meglio degli adulti.
Hai ragione a dire che c’è fame di sacro. E tu indichi anche una delle cause della sua assenza, ossia la banalità di certo predicume. Ma c’è anche tanto altro, credimi. C’è il clericalismo, di cui papa Francesco non perde occasione per ricordarne la pericolosa tendenza a oscurare il Vangelo. Fatto di abitudine, di sistemazione professionale, di moralismo. Per dirla in breve, quella patologia ecclesiastica per cui la vocazione cristiana non è percepita come una chiamata, in cui ci si mette a servizio di chi chiama, quanto una scelta soggettiva da coniugare col proprio star bene, in cui è l’umano a dettare il calendario e i passi su cui camminare.
Ma il mistero non latita soltanto a causa dei preti. Latita nelle famiglie, dove si critica il parroco perché mette le Cresime nel giorno in cui il figlio ha la partita, o magari dove si parla di Chiesa e di preti solo per seminare sospetti, critiche corrosive, sostanziale disistima. E senza contare una cultura che ormai da tempo ha reso la questione della fede un fatto irrilevante.
È da questi scenari che si comprende come oggi esista una lontananza che sembra incolmabile tra la Chiesa e le nuove generazioni. E penso che sia da questo orizzonte che don Matteo prende le mosse per mettere le sue parole a servizio di altra Parola, senza pretesa di sostituirsi ad essa se non per servirla al meglio. Dove l’obiettivo primario è quello di creare empatia con l’uditorio, aprire un varco perché sia la disponibilità del cuore di chi ascolta a rendere possibile costruire nuovi ponti. Lo ha fatto anche Gesù, andando a casa di peccatori, ladri e prostitute. Lo ha fatto servendosi di dialoghi in cui ha portato dentro la vita del suo tempo. Non era Sanremo, ma era comunque la cronaca di ciò che accadeva intorno. Voleva semplicemente arrivare al cuore, condizione previa per mettere semi di Verità.
Oggi un giovane che frequentasse le nostre chiese, quali condizioni troverebbe per sentire il desiderio di entrare? Sparuti gruppi di anziani, soprattutto donne, intente a biascicare meritori quanto tristi rosari, con liturgie spesso dedicate alla memoria di defunti, in una generale impressione di stanchezza e mancanza di gioiosa fraternità. È su questa frontiera che don Matteo è capace di creare le premesse perché si torni a guardare alla Chiesa come luogo di speranza.
Dalla sua ha anche il carisma di una forte personalità. Un prete dalle mille risorse, capace di coinvolgere con la forza dell’entusiasmo e con quella di un sorriso ironico e trascinatore, come conviene a chi sa coniugare cordialità e intelligenza. È sempre conoscendo gli uomini, caro Massimo, che è possibile capire la bontà del loro agire.
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