L’antico mito della caverna capace di mettere a nudo le nostre reali schiavitù
Siamo ad Atene nel V secolo avanti Cristo, giusto l’altro ieri. Platone, filosofo e scrittore, mette mano ad una delle sue opere più note, La Repubblica. Ragiona su quello che vede, in particolare sulla politica da cui è peraltro profondamente deluso...
Siamo ad Atene nel V secolo avanti Cristo, giusto l’altro ieri. Platone, filosofo e scrittore, mette mano ad una delle sue opere più note, La Repubblica. Ragiona su quello che vede, in particolare sulla politica da cui è peraltro profondamente deluso. È amareggiato nel vedere i condizionamenti cui va soggetta la gente, quando il potere, più che servizio, diventa un servirsi degli altri. È in questo pessimistico indugiare del pensiero che egli crea il mito della caverna, attualissima metafora di quello che accade dentro di noi e intorno a noi.
Il filosofo immagina una moltitudine di persone che vivono in una grotta, prigioniere fin dalla nascita. Sono incatenate. Non possono fare alcun movimento, neppure con il capo. Obbligate a guardare fisso una parete davanti a loro. Mentre dietro c’è un fuoco che getta una timida luce e persone che passano tenendo in mano oggetti vari. L’ombra che si proietta sulla parete con la luce del fuoco è tutto ciò che essi conoscono della realtà e della verità. Questo fin quando un dato giorno, uno di loro riesce a liberarsi. Prima è un difficile approdo alla luce del sole che acceca. La verità ha sempre un prezzo. Poi, piano piano, la presa di coscienza che la nuova verità è ben diversa da quella che era stata mostrata loro nei giorni della prigionia. Il primo impulso è quello di correre dentro, dirlo ai suoi compagni e liberarli. Ma essi come reagiranno? Platone ha visto quale fine ha fatto il suo maestro Socrate, per aver predicato la libertà e la verità. Condannato a morte, con una dose di cicuta.
Fin qui il mito. Poi, per non buttarla subito in politica, varrebbe la pena partire dalla propria coscienza. Il tempo estivo che inclina all’evasione, potrebbe essere una buona occasione per guardarsi dentro, magari solo per capire quali sono le ombre che proiettano i nostri manovratori interni. Quelli delle nostre pulsioni, dei sentimenti, delle passioni che ci guidano, degli istinti animaleschi. Sono lì, ben nascosti nelle retrovie, pronti a dirci cosa fare, cosa pensare e cosa dire. I Padri del deserto, quando si ritiravano per pregare e per convertirsi, capivano che erano questi gli animali feroci che insidiavano la loro vita. Noi li abbiamo poi banalizzati dentro qualche brigata zoologica, che intenerisce. Ma l’indagine interiore di questi uomini di Dio era di fatto un percorso di psicanalisi, con cui lentamente uscivano dalle ombre dei propri condizionamenti interiori, per approdare alla luce, quella che fa vedere uomini e cose con occhi nuovi e animo rinnovato.
Ma poi, a volersi sintonizzare stavolta col Platone politico, la domanda si fa decisamente inquietante. Siamo persone libere, o viviamo convinti che la realtà sia quella delle ombre che ci mostra una società con le sue tecniche di potere? Era il 1983 quando un grande uomo di Chiesa, il cardinale Giacomo Biffi, scriveva: “Nel rispetto del vocabolario sta la salvezza del nostro futuro”. Parole profetiche che ci ricordano la crisi di con-senso che attraversa il nostro tempo. La stessa parola è riempita di significati diversissimi e spesso opposti. Anziché unire diventa così divisiva, dentro un orizzonte di dis-senso. Famiglia, matrimonio, amore, vita, morte, maschile, femminile, uomo, donna… Come nella bottega di un sarto ognuno ci mette i bottoni e i colori che preferisce.
E questo perché dietro il nostro ragionare c’è il fuoco delle ombre e i giocolieri delle nostre esistenze, che ci suggeriscono ogni giorno in quali verità credere e cosa fare.
Si alza qualche voce profetica. Qualche prigioniero che è venuto alla luce. Ma quasi sempre è inascoltato, se non messo alla berlina. E allora, perché non cominciare da se stessi, con un sussulto di coscienza, a interrogarsi su ciò che è vero e soprattutto buono? Con il coraggio di chiamare col loro nome le schiavitù del nostro tempo.
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