Condiscepoli di Agostino
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La pace è aspirazione universale

Agostino già ha introdotto e trattato ampiamente il tema della beatitudine. Vi affianca il tema della pace su cui spende parole illuminanti

Parole chiave: Sant'Agostino (190), La città di Dio (66)

Agostino già ha introdotto e trattato ampiamente il tema della beatitudine. Vi affianca il tema della pace su cui spende parole illuminanti. La pace è desiderio di tutti. Tutti mirano alla pace. Anche quella iniqua, imposta dalla guerra, in conformità all’assioma romano di Tacito, secondo il quale i Romani chiamavano pace dove avevano fatto il deserto, cioè distrutto tutto. Vi dedica i paragrafi dall’undici al diciassette. Un capolavoro da se stesso. Dà il la a tutto il discorso con questa ouverture: “Potremmo dire che la pace è il fine dei nostri beni, come l’abbiamo detto della vita eterna” (De civ. Dei, XIX, 11). È questa la pace che va considerata come “fine di questa città, in cui avrà il Sommo bene, o pace nella vita eterna o vita eterna nella pace… È tanto grande il bene della pace, che anche nelle cose terrene e mortali nulla solitamente si ode di più gradito, nulla si concupisce di più desiderabile, nulla alla fine si può trovare di meglio” (Ivi).

L’esperienza stessa documenta che “non vi è nessuno che non voglia avere la pace. Talvolta coloro che vogliono le guerre, altro non vogliono se non vincere; desiderano pertanto pervenire ad una pace gloriosa” (De civ. Dei, XIX, 12.1). Ovviamente, concretizzando il principio espresso da Tacito, secondo il quale dove i Romani distruggevano tutto, creando il deserto, questo denominavano pace: “Non è forse la vittoria se non la sottomissione di quanti si erano opposti?… La pace è il fine auspicabile della guerra… Non vogliono di certo che non vi sia la pace, ma che sia quella che essi vogliono…  con l’intento della pace si fanno le guerre” (Ivi).

Anche il mitico Caco altro non voleva se non la pace, vivendo nella sua spelonca, intriso di sangue di tutte le vittime, per il solo fatto che gli davano fastidio (Cfr. De civ. Dei, XIX, 12.2). Hanno il senso della pace anche le fiere, nel vivere socialmente. Tant’è che, anche le più solitarie e asociali, come i leoni, i lupi, le aquile, accudiscono e persino accarezzano i loro nati (Cfr. Ivi). A maggior ragione “l’uomo è portato in un certo modo dalle leggi della sua natura a mettersi in società e a ottenere la pace con tutti gli uomini, per quanto in lui, dal momento che anche i malvagi combattono per la pace dei loro e tutti, se lo possono, vogliono farli propri, affinché tutti e tutte le cose siano schiavi di uno solo, al fine di acconsentire alla pace imposta da lui, o per amore o per timore. Così la superbia imita perversamente Dio. Ha in odio l’uguaglianza con i soci sotto di Lui, ma vuole imporre ai soci il suo dominio al posto di Lui. Ha in odio pertanto la giusta pace di Dio e ama la sua ingiusta pace. Tuttavia, in nessun modo non può non amare la pace di qualunque sorte essa sia. Di nessuno certamente vi è un tale vizio contro la natura da distruggere anche le sue estreme vestigia” (Ivi). Dunque, nessuno è talmente malvagio da non conservare dentro di sé almeno un vestigio della volontà di pace. Tutto nell’universo è pace cioè armonia e tutto ritorna alla sua pace, poiché “in nessun modo nulla si sottrae alle leggi di quel sommo Creatore e Ordinatore dal quale la pace universale viene amministrata” (De civ. Dei, XIX, 12.3).

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