Condiscepoli di Agostino
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Anche i nostri meriti sono doni di Dio

Agostino si chiede se il Mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio era assolutamente necessario ai fini della redenzione dell’umanità. Di certo no

Anche i nostri meriti sono doni di Dio

Agostino si chiede se il Mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio era assolutamente necessario ai fini della redenzione dell’umanità. Di certo no. In effetti, “Dio, alla cui potenza tutto è ugualmente sottomesso, aveva la possibilità di fare uso di un altro modo” (De Trinitate 13,10.13). Tuttavia, precisa, “non c’era né vi sarebbe potuto essere un altro modo più conveniente per risanare la nostra miseria” (Ivi). Prima di tentare di convincere gli altri dei suoi asserti, Agostino sente il bisogno di trovare ragioni opportune per convincere se stesso. Ecco allora il suo ragionamento: “Al fine di impedire alle menti dei mortali di disperare a causa della abietta condizione della stessa mortalità, che cosa era così necessario come il dimostrarci quanto gli siamo preziosi e quanto Egli ci ama?” (Ivi). L’incarnazione del Verbo di Dio non era dunque necessaria in modo assoluto. Ma Dio ha considerato ciò che era più conveniente per l’uomo, mostrandogli anzitutto quanto l’uomo fa parte dei suoi interessi. Eccone la prova: “Il Figlio di Dio, immutabilmente buono, restando in se stesso ciò che Egli era, e ricevendo da noi, in nostro favore, ciò che Lui non era, si è degnato di divenire partecipe della nostra natura umana, senza nulla perdere della sua natura divina” (Ivi). Messo in chiaro ciò che riguarda il mistero dell’Incarnazione, il fatto cioè che nell’assumere la natura umana il Verbo di Dio nulla ha perso della sua natura divina, Agostino precisa ulteriormente: “Ha portato su di sé i nostri mali” (Ivi), e, cosa ancor più divina, che manifesta la benevolenza di Dio verso l’uomo, “con indebita larghezza ha conferito a noi i suoi doni, senza alcun nostro merito per beni compiuti, anzi gravati come eravamo di mali precedenti” (Ivi). A questo punto, Agostino può tirare le sue conclusioni con un famoso aforisma: “Anche quelli che diciamo nostri meriti sono doni suoi” (De Trinitate 13,10.14: “Et ea quae dicuntur merita nostra, dona sunt eius”). Era una risposta inequivocabile soprattutto ai pelagiani, eretici, che si ritenevano autori dei loro meriti, acquistati non per la grazia del mistero dell’Incarnazione, ma esclusivamente in forza del proprio libero arbitrio. La questione è radicale: a chi il merito della nostra salvezza? Ce lo chiediamo in prossimità del mistero pasquale, senza il quale l’umanità sarebbe ancora immersa nel sistema del peccato. Quelli che riteniamo nostri meriti sono il frutto della morte e risurrezione di Gesù Cristo.

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