Ascoltare, dialogare, camminare: ecco di cosa abbiamo bisogno
Come i discepoli di Emmaus oscilliamo tra la nostalgia e la profezia
“Solo tu sei così straniero da non sapere?”. Questa domanda, un po’ provocatoria, che i due discepoli di Emmaus rivolgono al loro nuovo compagno di viaggio, un Gesù irriconoscibile, lascia pensare che ciò di cui parlavano era veramente sulla bocca di tutti, in quei giorni di Pasqua. C’era bisogno di parlarne: parlarne mentre si cammina allontanandosi da Gerusalemme, luogo della delusione; parlarne recandosi in un posto diverso, Emmaus, luogo di antiche vittorie (1 Mac 4,1-15). A quanto pare, però, per i due discepoli, Emmaus rievoca più un luogo di nostalgia che di profezia.
I due discepoli non lo sanno, ma… “andrà tutto nuovo”. Hanno bisogno di essere ascoltati e sostare nella loro tristezza, di non scacciarla in fretta. Fermarsi col volto triste? Sì, fermarsi un attimo, uscire dallo stordimento di chi corre come una giostra, per entrare in modo più profondo in quello che stanno provando, in quello che stanno vivendo. Non si rendono conto che chi li sta ascoltando, li accompagna a sconfinare oltre il perimetro dei loro ragionamenti umani.
Ascoltare, dialogare e camminare: descrivono il movimento essenziale di quell’allontanamento da Gerusalemme, ben descritto nei primi versetti dall’evangelista Luca (Lc 24,13-24), un abile narratore. Proprio perché se ne parla, proprio perché li ascolta, l’irriconoscibile Gesù è già in mezzo a loro (“Dove due o tre …” – Mt 18,20).
Gesù si approssima e ascolta. Gesù si affianca e fa domande. Gesù cammina con loro, senza mettersi davanti, l’apripista; senza mettersi dietro, il pecorone. Si mette in mezzo, condivide quella fuga dalla città santa. Gesù si mostra interessato ai loro discorsi (Lc 24,19). Non è nemmeno preoccupato di risolverseli subito, come quando abbiamo già in testa la risposta pronta, fumante come una torta appena sfornata, prima ancora di sentir concluso il discorso di chi ci parla.
Ascoltare, dialogare e camminare: ecco di cosa abbiamo bisogno. Siamo i due discepoli, siamo in fuga verso Emmaus, accecati dalla nostalgia di come le cose andavano prima. Sentiamo nostre le parole del Salmo 42,5, il nostalgico suonatore di cetra del tempio di Gerusalemme: “Questo io ricordo e l’anima mia si strugge: avanzavo tra la folla, la precedevo fino alla casa di Dio, fra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa”. Come dimenticare la moltitudine delle grandi celebrazioni? La moltitudine delle processioni? Dei meeting? La Bibbia è trapuntata di assembramenti, la stessa promessa fatta ad Abramo è il futuro “assembramento” del popolo eletto, (“moltiplicherò la tua discendenza” – Gen 16,10) e oggi ci sentiamo maledetti da quella benedizione.
Eppure andrà tutto nuovo! Una cosa sta succedendo nei discepoli in quel dialogo itinerante verso Emmaus: il cuore arde. Sì, il cuore ha incontrato Gesù prima della mente. Avranno bisogno del pane spezzato per rammentare quello che hanno sperimentato mentre ascoltavano, dialogavano e camminavano. L’irriconoscibile Gesù è il Cristo risorto.
Loro non lo sanno, ma andrà tutto nuovo. Il loro cuore ardente, mentre raccontano e ascoltano la parola del viandante sconosciuto, è già segno di risurrezione, un segno di vita. Durante il mescolarsi di quelle parole di morte che si vomitavano addosso rattristati, il cuore era già avanti, aveva iniziato il suo nuovo ritmo cardiaco su uno spartito diverso, quello della risurrezione. Ecco perché ne è valsa la pena ascoltare, dialogare e camminare.
Il Cristo riconosciuto allo spezzare del pane non era diverso dall’irriconoscibile Gesù lungo la via, verso la nostalgica Emmaus. Abbiamo bisogno di racconti di risurrezione, parole che scaldino il cuore. Il nostalgico citaredo del tempio di Gerusalemme conclude la sua invocazione di verità con una profezia: “Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi […] Verrò all’altare di Dio, a Dio, mia gioiosa esultanza. A te canterò sulla cetra, Dio, Dio mio” (Sal 43,3-4).
Mons. Martino Signoretto
Vicario episcopale per la cultura
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