Il ghetto: quella fetta di centro con una lunga storia da raccontare
di ADRIANA VALLISARI
Le caratteristiche case, i cambiamenti, quel che rimane oggi
di ADRIANA VALLISARI
Anche Verona ha avuto il suo ghetto: si trovava in pieno centro storico, fra via Mazzini, piazza Erbe, via Pellicciai e vicolo San Rocchetto. Ne ripercorre la storia e le vicissitudini la mostra documentale “Tracce e memorie del ghetto”, visitabile fino al 3 febbraio alla Biblioteca Civica, che l’ha organizzata insieme all’Archivio generale del Comune di Verona. L’esposizione è stata realizzata con la collaborazione di Valeria Rainoldi, storica dell’architettura che da anni si occupa di queste tematiche, raccolte nel libro Il ghetto di Verona e la sua sinagoga (Cierre, 2020). L’ingresso alla mostra è libero; vi si accede dal martedì al sabato dalle 9 alle 19 (ma ci sarà un’apertura straordinaria domenica 28 gennaio) e il lunedì dalle 14 alle 19.
Com’era
Un secolo fa a Verona iniziavano gli abbattimenti del ghetto, abitato dagli ebrei dalla fine del ’500 alla fine del ’700; con l’arrivo di Napoleone in città, nel 1797, le porte che lo chiudevano furono abbattute, consentendo alla popolazione ebraica di abitare anche in altri quartieri. Il ghetto si trasformò quindi in un complesso di case vecchie e fatiscenti, con gravi problemi di igiene. Una zona degradata, eppure centralissima, oggetto di varie inchieste: da una del 1905 risultava che nel ghetto risiedevano 75 famiglie con 389 abitanti, serviti solo da 15 scarichi fognari... Già dalla fine dell’800 si discuteva della possibilità di demolire e ricostruire le abitazioni; le prime picconate cominciarono nel 1924, dopo che il Comune acquisì le varie proprietà. «Fu una cosa complicatissima, perché le trattative avvennero casa per casa: nell’archivio del Comune sono custodite 146 buste di preliminari e compravendite e i mappali, minuscoli; alla fine, solo una famiglia si rifiutò di vendere al Comune», illustra Rainoldi. Al di là del sovraffollamento, alcuni edifici si sarebbero però potuti salvare? «Questo è un punto controverso, su cui le relazioni presentano diverse velature – spiega –. Per esempio, casa Pincherli fu oggetto di una querelle lunghissima: la Soprintendenza cercò di salvarla, ma le ragioni dell’arte furono superate da quelle dell’economia e si riuscì solo a recuperare gli elementi architettonici di pregio». Il grosso delle demolizioni avvenne tra il 1924 e il 1928: all’epoca erano pochissimi i proprietari ebrei, fuoriusciti dal ghetto dopo l’arrivo di Napoleone. Le ricostruzioni furono programmate in tre fasi, per isolati: riguardarono l’area della sinagoga, quella della corte spagnola (che deve il nome al folto gruppo di ebrei spagnoli che lì vi si stabilirono nel Seicento) e la zona finale dell’attuale via Mazzini. «L’amministrazione fascista di certo accelerò il processo, ma la rivisitazione architettonica dei ghetti ebraici, che si trovavano in zone centrali delle città, si presenta ovunque nelle città italiane, magari con tempistiche diverse», rileva la studiosa.
Cosa si voleva realizzare
Prima ancora dell’ascesa del fascismo, però, in nome della modernizzazione rischiarono di sparire le splendide case-torri alte fino a 7 piani, che ancora oggi si possono ammirare nel lato meridionale di piazza Erbe. Lì l’amministrazione comunale voleva fare spazio per realizzare un grande politeama: il dibattito coinvolse illustri personaggi del tempo, con in testa il pittore Angelo Dall’Oca Bianca, che si opposero allo scempio. «Ci fu una grande rivolta degli artisti quando si scoprì che il Comune aveva quasi validato il progetto di realizzare un complesso mastodontico ed esteticamente molto discutibile – illustra Rainoldi –. La questione finì persino in Parlamento e la mobilitazione per preservare la piazza riuscì: nel 1910 le case-torre furono dichiarate “di interesse particolarmente importante” e “intangibili” nel 1917, facendo desistere il Comune». Ci provò anche la Cassa di Risparmio di Verona a modificare quella zona di ghetto compresa fra via Portici, via Mazzini, piazza Erbe e via Camera di Commercio. Nel 1910 bandì un concorso internazionale, a cui parteciparono ben 47 progettisti, ma nel 1916 il progetto vincitore, sottoposto al vaglio della Commissione superiore di Belle Arti, fu bocciato. Più tardi anche l’idea di creare una piazza in vicolo Corte Spagnola, appena dietro piazza Erbe venne abbandonata, dopo svariati scontri tra podestà e Soprintendenza.
Cosa resta oggi
Le case-torri, alte e strette, affacciate su piazza Erbe (ai civici 5, 7, 9 e 11) sono uno dei lasciti più evidenti del ghetto. C’è poi, ovviamente, la sinagoga, che in origine – le prime notizie risalgono al 1539 – era situata in contrada San Sebastiano. La nuova presenta una maestosa facciata in via Rosani, che fu inaugurata nel 1929 e che si deve all’architetto veronese Ettore Fagiuoli (1884-1961). Sempre lui fu chiamato a risolvere un altro punto spinoso della riqualificazione, ovvero il vicino porticato di origine cinquecentesca di via Portici. Il Comune infatti avrebbe voluto demolirlo e ricostruirlo con un piano in più, su richiesta della Comunione Israelitica, ma la Soprintendenza si oppose; la diatriba per il restauro del porticato durò tre anni, quando ormai i lavori nel ghetto erano iniziati. Nel 1928 la Comunione affidò l’incarico a Fagiuoli, chiedendogli di progettare pure la ristrutturazione della sinagoga, e l’aspetto del porticato oggi è lo stesso di allora. E perché non fare un grande cinematografo? Negli anni Trenta ci pensò la Società Immobiliare Cinematografica Veronese Anonima, realizzando un “Super cinema” (a cui poi si addossò un “Super palazzo”), opera dell’architetto Francesco Banterle. Basta alzare la testa quando si passa da via Mazzini, prima di girare l’angolo di piazza Erbe; oggi l’edificio è sede di attività commerciali e, all’interno, del “Super cinema” in stile Art Déco purtroppo è rimasto poco o nulla. «La rivisitazione del ghetto di Verona termina con la costruzione dell’edificio della Banca Nazionale del Lavoro in via Mazzini (dove oggi c’è il negozio Zara, ndr), realizzata dall’architetto Fagiuoli nel 1938», conclude Rainoldi. È un pezzo di storia della città che merita di essere rispolverato, nonché l’occasione per ripercorrere il rapporto fra Verona e la sua comunità ebraica, che oggi conta poco meno di 100 iscritti.
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