Giovani. Se la laurea "perde" l'ascensore
La laurea è ancora un traguardo ambito e valido per prendere l'ascensore sociale o si è trasformata in un pezzo di carta di scarsa validità entro i confini nazionali? Le difficoltà dei giovani, le possibili soluzioni.
Laurearsi serve ancora? Una domanda provocatoria, ma non per i giovani che devono scegliere se proseguire o meno gli studi. Decidere in quale settore investire le proprie energie, senza avere la certezza di trovare un’occupazione dopo anni sui libri, è una scelta cruciale nella realizzazione personale, che ha pure pesanti risvolti collettivi. Un tempo la laurea rappresentava un ascensore sociale e il trampolino di lancio per la carriera. Oggi?
Una fotografia del presente l’ha scattata l’Istituto Toniolo, con il suo annuale “Rapporto giovani”, curato dal prof. Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e autore del libro Neet. Giovani che non studiano e non lavorano (Vita & Pensiero, 2015).
– In Italia abbiamo meno laureati di tutti i nostri concorrenti europei e il tasso di abbandoni universitari più alto d’Europa. Segno che qui la laurea non è vista come un investimento?
«In Italia il capitale umano delle nuove generazioni è meno valorizzato rispetto a gran parte degli altri Paesi avanzati. Mentre nel resto d’Europa essere giovane e laureato è un valore aggiunto, che consente di avere tassi di occupazione elevati e migliori remunerazioni rispetto a chi ha titoli di studio più bassi, ciò non avviene nel nostro Paese. Solo dopo i 35 anni il rendimento della laurea comincia a diventare rilevante».
– Come mai?
«A causa del nostro basso investimento in ricerca e innovazione, in combinazione con la nostra più limitata capacità di fare una politica di sviluppo espansiva nei settori più dinamici e competitivi, che sono quelli che assorbono maggiormente giovani altamente qualificati. Tanto che tre giovani su quattro, secondo i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, pensano che nel resto del mondo sviluppato le opportunità, per una persona con la loro stessa formazione, siano maggiori».
– In Italia registriamo un’altissima percentuale di Neet, giovani che non studiano e non lavorano. I ragazzi di oggi hanno voglia di studiare o sono disillusi?
«La generazione dei Millennials è quella con più alti livelli d’istruzione in Italia, ma più bassi rispetto ai coetanei europei. Presenta alte potenzialità, dimostra grande impegno e produce elevati risultati nei contesti formativi e di lavoro stimolanti, in grado di riconoscerne le specificità e metterle a frutto. I limiti principali sono però due: uno generale e uno italiano».
– Ovvero?
«Il primo è la maggiore esposizione al rischio di demotivazione rispetto alle generazioni precedenti. Se non vengono incoraggiati e non vedono risultati concreti, i giovani rischiano di perdersi e abbandonare. Questo vale per il posto di lavoro, per la decisione di emigrare altrove e per la partecipazione sociale e politica. Il secondo limite, che riguarda più il nostro Paese, è che i giovani italiani rimangono immaturi più a lungo, intrappolati nella condizione di figli, anziché misurarsi presto con gli impegni e le responsabilità dell’età adulta».
– Come si orientano nella scelta dell’università?
«Più che altrove pesano il ruolo della famiglia di origine e le scelte di amici e conoscenti, come vale anche per la ricerca del lavoro. Più deboli sono gli strumenti di vero orientamento, basati su un’attenta valutazione di proprie attitudini e aspirazioni a confronto su come evolve il mercato del lavoro. Inoltre, basso è l’investimento pubblico in diritto allo studio e questo va a penalizzare soprattutto i giovani di classi sociali medio-basse. Non a caso siamo uno dei Paesi sviluppati con più alta correlazione tra stipendio dei genitori e quello dei figli. Un segnale inequivocabile di una mobilità sociale inceppata».
– Non è infrequente imbattersi in giovani con una laurea in tasca che finiscono a lavorare, precari, in un call center. Qual è il problema?
«Nei Paesi che crescono di più e sono più competitivi, essere un under 30 laureato è un vantaggio. In Italia non è così. Il tasso di occupazione dei laureati supera quello di chi ha titolo intermedio solo dopo i 30 anni e anche il guadagno in termini economici è basso. Questo porta, da un lato, a cercare migliori opportunità all’estero e, dall’altro, a rimanere più a lungo in famiglia prima di conquistare una vera autonomia».
– Con quali implicazioni?
«Si accentuano le differenze sociali, perché i giovani che hanno una famiglia capace di sostenerli a lungo possono aspettare l’occasione giusta da cogliere o accettare un lavoro ambìto anche quando prevede una prima fase poco remunerativa. I laureati che provengono da classe sociale bassa, invece, devono accettare ciò che offre il mercato e spesso si trovano sotto-inquadrati e intrappolati in percorsi di bassa professionalità. Questo produce implicazioni negative sulle generazioni ancora più giovani e sulle loro famiglie, che possono essere disincentivate a investire sulla formazione. L’istruzione è invece cruciale e, in ogni caso, produce un valore aggiunto anche in Italia, seppur più basso rispetto ad altri Paesi».
– Bisognerebbe puntare su indirizzi più “spendibili” di altri, ad esempio le facoltà scientifiche, come sostengono alcuni?
«Conta il tipo di facoltà, ma ancor più rafforzare bene la propria formazione sia tecnica che sul fronte delle competenze trasversali, durante il periodo di studi. Considerare l’università un esamificio cercando di ottenere un pezzo di carta con il minimo sforzo possibile, non porta da nessuna parte».
– Molti giovani laureati decidono di andare all’estero, in cerca di prospettive di vita migliori. Così ci stiamo impoverendo?
«Siamo uno dei Paesi con meno giovani, come conseguenza dell’accentuata denatalità, e con minor incidenza in Europa di laureati. Se poi i giovani più qualificati scelgono di trasferirsi, rischiamo di perdere la risorsa più importante per tornare a crescere e produrre nuovo benessere. La soluzione non è certo quella di frenare l’uscita. Dobbiamo però invertire questo trend, tornando a investire sulle opportunità per le nuove generazioni e riattraendo i talenti fuoriusciti negli ultimi anni. È triste oggi osservare che per un giovane italiano è più facile dimostrare quanto davvero vale quando va oltreconfine».
– Quali fattori potrebbero risollevare il tasso di crescita del nostro Paese?
«Usando una metafora calcistica: è come se noi i giovani, anziché farli giocare sul campo nel ruolo più adatto alle proprie capacità, li tenessimo in panchina, ma senza farli allenare e riscaldare. Così il tempo passa, la squadra non fa i cambi che servono e chi sta in panchina perde solo tempo raffreddandosi sempre di più».
– Fuor di metafora?
«Se vogliamo tornare a crescere, dobbiamo migliorare la formazione dei giovani, renderla più coerente con le competenze utili per la vita e il lavoro nel XXI secolo. Dobbiamo poi fare in modo di combinare al miglior livello le competenze formate con quelle ricercate nel mercato del lavoro. E, infine, aumentare la valorizzazione del capitale umano delle nuove generazioni del sistema produttivo, combinando qualità del lavoro con maggior competitività dei prodotti e servizi nel mercato. Il capitale umano dei giovani deve diventare la leva per spostare più in alto le potenzialità di sviluppo del sistema Paese. Con vantaggio di tutti».
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