La battaglia (vinta) contro i clorofluorocarburi che bucavano l’ozono e ci mettevano a rischio
“C’è un buco nel secchio”, iniziavano a urlare le ragazze, radunate in gruppo sotto il nome di Gertrude, rivolgendosi ai ragazzi (Arturo) che in fretta dovevano organizzarsi per continuare questo dialogo cantato...
“C’è un buco nel secchio”, iniziavano a urlare le ragazze, radunate in gruppo sotto il nome di Gertrude, rivolgendosi ai ragazzi (Arturo) che in fretta dovevano organizzarsi per continuare questo dialogo cantato. Tante sfide e litigate, che partivano dall’assoluta improvvisazione per sfociare nelle vie più diverse, riconducibili soprattutto a: provare a tappare il buco, mostrare che in realtà non c’era alcuna falla, distogliere l’attenzione cambiando argomento. Assomiglia molto all’approccio comune al buco dell’ozono, la cui questione è richiamata nella Giornata internazionale del 16 settembre, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1994. D’altronde, se si vuole conservare la vita sulla Terra, occorre (anche) sensibilizzare i vari Gertrude e Arturo a salvaguardare l’equilibrio degli elementi della stratosfera. Se le molecole del triossigeno (nome chimico) sono stato isolate per la prima volta nel 1840 da Christian Friedrich Schönbein, a cui si deve anche il termine comune legato al suo emanare odore, la dicitura “buco dell’ozono” è stata coniata nel 1985 da Frank Sherwood Rowland, che voleva indicare in realtà l’anomalo assottigliamento del suo strato tra i 10 e i 40 km dalla superficie terrestre, soprattutto ai Poli. Questo gas blu ha la funzione di assorbire e trattenere parte dell’energia proveniente direttamente dal Sole: in tal modo, da una parte viene riscaldato questo strato di atmosfera; dall’altra si impedisce che i raggi UV-C e UV-B arrivino in maniera troppo massiccia sulla superficie terrestre. Se infatti essi sono indispensabili, per esempio per la produzione di vitamina D nell’uomo, sono anche i responsabili, tra l’altro, delle scottature, del cancro alla pelle, di molte cataratte e del cosiddetto “effetto serra”. Al di là delle polemiche sul nome proposto da Rowland (a partire da chi sostiene che un vero buco avrebbe già portato alla completa estinzione), la provocazione era di muoversi, e pure in fretta. Il primo passo, già il 16 settembre 1987, fu la firma del cosiddetto “Protocollo di Montréal”, ovvero il trattato internazionale che per primo ha posto le basi per la riduzione e l’uso di varie sostanze minacciose per questo, in particolare i clorofluorocarburi, allora largamente utilizzati come propellenti per aerosol e agenti refrigeranti, oltre che per la preparazione di materie plastiche espanse. Entrato in vigore nel 1989 e ratificato praticamente in tutto il mondo (caso quasi unico e paradigmatico), ha avuto varie revisioni e diverse applicazioni locali: dal 31 dicembre 2008, per esempio, in Italia non si possono più produrre e utilizzare clorofluorocarburi e c’è stata una grande limitazione agli idrofluorocarburi. Questo, come spesso succede, ha portato alcuni disagi immediati, ma ha fornito una qualche tranquillità per il futuro e una spinta nel presente a lanciarsi su ricerche innovative: il buco nel secchio c’è, ma Gertrude e Arturo hanno dimostrato che, insieme, possono prendersi cura della casa comune.
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