Hamburger, il panino americano per eccellenza che nel mondo fa il pieno di incassi (e di calorie)
Chissà se Donald Trump, alle prese con le conseguenze economiche (ed elettorali) della pandemia da Covid-19, conosce la frase attribuita a una signora americana: «Se puoi fare un buon taglio di capelli o se puoi preparare un buon drink in un bar o se puoi servire un buon hamburger, puoi sempre fare soldi in America»...
Chissà se Donald Trump, alle prese con le conseguenze economiche (ed elettorali) della pandemia da Covid-19, conosce la frase attribuita a una signora americana: «Se puoi fare un buon taglio di capelli o se puoi preparare un buon drink in un bar o se puoi servire un buon hamburger, puoi sempre fare soldi in America». A renderla famosa è soprattutto il destinatario: Jerry Murrell, figlio di quella donna e fondatore nel 1986, insieme alla moglie e ai figli, della catena di fast food Five Guys. Partendo dal centro commerciale Westmont di Arlington (Virginia), dove impastavano gli hamburger con le loro mani, sono arrivati in molti Paesi, compresi l’Italia, apprezzati per la semplicità del menu e la freschezza dei prodotti. Non è quindi (ancora) un brand planetario, ma sembra rispondere meglio alle nuove esigenze del mercato, che vede richieste nuove – più ecologiche e salutiste – da parte dei clienti (soprattutto giovani) e delle agenzie internazionali.
L’anno scorso Greenpeace invocava entro il 2050 il dimezzamento del consumo di prodotti alimentari di origine animale, perché considerati responsabili nella loro filiera di gravi danni sul clima e sull’ambiente. Una grande incognita quindi soprattutto sull’hamburger, il cibo americano per eccellenza, che proprio lì ha visto nascere la sua Giornata mondiale (28 maggio), poi esportata – a sua volta – in tutto il mondo. E pensare che le prime testimonianze scritte su queste polpette di carne risalgono al XIX secolo e rimandano proprio alla città di Amburgo, dal cui porto hanno raggiunto il Nuovo Mondo. Sono tornate in Europa, arricchite e innaffiate di salse, come street food: la prima apparizione da noi è del 1981 nel quartiere San Babila a Milano per il marchio italiano Burghy. Sono seguite poi, con più o meno successo, le aperture di migliaia di locali nelle versioni globalizzate o nostrane, anche con tentativi di coniugare semplicità ed eccellenza.
Uno studio di cinque anni fa evidenziava che l’88% della popolazione americana riconosce il doppio arco dorato come logo della principale catena di fast food (contro il 54% che identifica la croce con il mondo cristiano). I dati solamente di questo gigante della distribuzione alimentare, prima delle attuali chiusure, parlano di 75 hamburger venduti al secondo per un totale di oltre un miliardo di libbre di carne all’anno (5 milioni e mezzo di capi di bestiame). Secondo gli esperti il merito del successo non va attribuito a Dick e Mac McDonald, che nel 1940 aprirono il primo fast food a San Bernardino (California), ma del manager Ray Kroc, che ne fece una catena internazionale e diceva: «Non ho inventato l’hamburger. L’ho solo preso più seriamente di chiunque altro». Con altrettanta serietà – collettiva – sarà da riprendere in mano tutta la questione dell’alimentazione, con il paradosso registrato negli ultimi anni di due emergenze: obesità e malnutrizione. Rispettivamente con la chiusura in casa e la crisi economica non potranno altrimenti che peggiorare.
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