Gli orrori crescono con l’indifferenza
Enrico Mentana - Liliana Segre
La memoria rende liberi
Bur Rizzoli
Milano 2015
pagg. 230 - 10 euro
Ci sono libri che andrebbero letti da tutti, obbligatoriamente. Uno di questi è La memoria rende liberi. Un lucido racconto che si legge d’un fiato e che presenta la drammatica epopea di una famiglia laica e borghese degli anni ’30, strappata alla normalità e gettata nell’orrore del lager.
Una vicenda vera, che ha per protagonista Liliana Segre, una dei 25 italiani con meno di 14 anni sopravvissuti ad Auschwitz. «Sono convinta che nel giro di pochi anni sarà tutto dimenticato: quando non ci saranno più vittime e carnefici, della Shoah resterà solo una riga sui libri di storia», ha detto di recente in un’intervista televisiva. Nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’età di 88 anni Segre continua a girare le scuole d’Italia per parlare ai più giovani, provando a passare il testimone del ricordo.
La sua vita è cambiata definitivamente nel 1938. Le leggi razziali fasciste le impediscono di andare a scuola; a otto anni diventa improvvisamente diversa dalle sue compagne, solo perché ebrea. Deve rifugiarsi lontano da Milano, la sua città, per sfuggire alle persecuzioni. Il padre Alberto, amatissimo, fa di tutto per proteggerla: la nasconde in due famiglie di amici cattolici, che sanno di rischiare la fucilazione per quell’atto di altruismo.
Per stare vicino ai genitori anziani, suo papà ritarda la fuga all’estero; quando infine si decide, nel dicembre del 1943, è troppo tardi. Padre e figlia vengono arrestati al confine svizzero e incarcerati a San Vittore, anticamera d’attesa dell’orrore. Il 30 gennaio 1944, all’età di 13 anni, Liliana viene deportata. Dopo una settimana di viaggio arriva ad Auschwitz, luogo di morte per sei dei suoi familiari (e altri sei milioni di persone).
Qui sperimenta con stupore il male, la solitudine e le privazioni della prigionia, l’annullamento dell’umanità. Tuttavia riesce a salvarsi e a sopravvivere persino alla marcia della morte, lo spostamento forzato a piedi dei prigionieri verso la Germania.
Dopo la vittoria degli Alleati torna a Milano da sola, irriconoscibile, segnata a vita come quel numero tatuato sull’avambraccio. L’Italia appena uscita dalla guerra non ha nessuna voglia di ricordare; così lei accantona tutto e cerca di dimenticare. Solo molti anni più tardi capisce che non può più tenere per sé questa storia. «Non era facile, dopo quello che ho visto e sofferto: c’è voluto l’amore di mio marito Alfredo, il diventare mamma di tre figli e soprattutto l’essere nonna – spiega –. Ho compreso che stavo diventando vecchia e non avevo compiuto il mio dovere: così da trent’anni visito le scuole e parlo ai miei nipoti ideali, dicendo loro che gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra dell’indifferenza».
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