Un nuovo esodo biblico di cui siamo solo agli inizi
Un amico mi segnala un passo biblico su cui dovremmo riflettere con maggiore pensosità. Il passo è preso dal profeta Amos (Am 6, 12) e recita testualmente: “Corrono forse i cavalli sulle rocce e si ara il mare con i buoi?”. L’immagine parla da sé, con rara potenza letteraria...
Un amico mi segnala un passo biblico su cui dovremmo riflettere con maggiore pensosità. Il passo è preso dal profeta Amos (Am 6, 12) e recita testualmente: “Corrono forse i cavalli sulle rocce e si ara il mare con i buoi?”. L’immagine parla da sé, con rara potenza letteraria. Ci sono cose che non si possono fare. Né il cavallo potrebbe incedere sgambando in maniera asimmetrica, per non cadere e rompersi i garretti, né si potrebbe entrare in mare con un aratro trainato dai buoi. In entrambi i casi l’esito sarebbe fatale. Al mondo ci sono cose possibili e cose impossibili. Corro con la mente a questa immagine biblica e mi viene in mente l’esodo cui stiamo assistendo. Un esodo biblico. Inarrestabile. Come impossibile è fermare con le mani l’onda del mare, o le fiamme che avanzano, o anche la goccia di un rubinetto. Un esodo che ci ricorda la vicenda del popolo ebreo, in fuga dalla schiavitù, durato quarant’anni. Penso che ciò che sta avvenendo non avrà durata minore. Molti di noi non ci saranno per registrare la sua conclusione, ma le nuove generazioni, occupandosi di storia, faranno le loro valutazioni tra molti anni di questo fenomeno, di cui siamo solo agli inizi. Il fatto è che non ci troviamo davanti solo a scenari di guerra. Quelli sono i più clamorosi. L’immagine di un bambino senza vita, portato dalle onde come un messaggio di Dio all’umanità, è certamente un pugno nello stomaco, così come il martirio quotidiano di tanti innocenti, per i quali la morte, inferta con terribili crudeltà, spesso non è neppure la cosa peggiore. Donne umiliate, ripetutamente violentate, seviziate... dietro una apparente rassegnazione, che spesso altro non è che volontà di mettere al sicuro i propri cuccioli. Tutto questo è la guerra. Ma anche se finisse la guerra, l’esodo non finirà. Il nostro è il tempo della globalizzazione. Quando usiamo questa parola pensiamo ai mercati, agli affari. Quelli che si fanno rigando contratti, ma senza che il pelo sullo stomaco consenta di arrivare al cuore per sentire la voce dell’ingiustizia, che si nasconde dietro questi mercati. Ma prima della globalizzazione degli affari, è in atto da tempo una globalizzazione della comunicazione e quella dei trasporti. Oggi i satelliti portano nelle case di tutto il mondo ciò che accade nel resto del mondo. I social media mettono in contatto simultaneo dall’India alla Patagonia, dal Polo Nord alla Nuova Zelanda… La comunicazione è diventata una rete mondiale e, con essa, la cultura e la speranza. La speranza, quella di potere respirare un clima di pace, ma anche quella di veder riconosciuti i propri diritti. La speranza di poter vivere in una terra che riconosce libertà di pensiero, di fede, parità di diritti per uomini e donne, finalmente emancipate dall’angolo umiliante in cui le ha confinate certo maschilismo schiavista.
In questi giorni la politica europea conosce ritmi frenetici per affrontare il problema. Da una parte chi dà segnali di speranza aprendo le porte, dall’altra chi costruisce barriere culturali, rovistando nei malumori dei poveri o nascondendosi dietro i moralismi della cultura cristiana minacciata. Manca, è doloroso dirlo, un minimo pensiero intelligente che guardi avanti pensando ad orizzonti nuovi, cui la storia ci farà approdare, volenti o nolenti. Nel mondo è in atto un mescolamento di popoli, paragonabile a un mescolamento di carte. Il gioco è nuovo e solo all’inizio. Credere che dovremo continuare in eterno a giocare a briscola è miopia stupida e opportunismo irresponsabile.