Cosa c’è dietro un’adunata di alpini
Questa domenica a Treviso si danno appuntamento gli alpini d’Italia per la loro novantesima adunata. Perché un’adunata? Spesso, nel rispondere a questa domanda, l’immaginario collettivo finisce per indugiare su due aspetti. Da una parte c’è il rischio di trasformare un avvenimento così importante in una manifestazione folcloristica...
Questa domenica a Treviso si danno appuntamento gli alpini d’Italia per la loro novantesima adunata. Perché un’adunata? Spesso, nel rispondere a questa domanda, l’immaginario collettivo finisce per indugiare su due aspetti. Da una parte c’è il rischio di trasformare un avvenimento così importante in una manifestazione folcloristica.
Ci sta anche quello, ma non è questo lo scopo. Poi ci sta l’indotto economico per la città ospitante... Uno studio fatto dall’Università Cattolica di Piacenza in occasione dell’adunata in quella città ha calcolato che nei giorni del raduno siano girati 120 milioni di euro, di cui 80 in città e 40 in periferia.
Ci stanno tante cose dentro un’adunata, compreso l’affetto della gente per l’Ana, che fa degli alpini una categoria prediletta, ma due spiccano sulle altre, che non vanno perse di vista.
Monte Ortigara, Cortina d’Ampezzo, Trento, Aosta, Passo del Tonale-Adamello, Udine, Rifugio Contrin... Sono i nomi delle sette località in cui si svolsero le prime adunate a partire dal 1920. La topografia non consente di barare, perché dietro a questi nomi c’era il calvario di chi aveva pagato con la vita il prezzo della speranza per un’Italia migliore.
Radunarsi era un debito di riconoscenza verso chi era caduto, che si accompagnava al senso del dovere nel continuare a tenere vivi i valori per cui quei fratelli erano morti. Le battaglie si combattono al fronte e si combattono nella vita e smettere di lottare, siano tempi di guerra o tempi di pace, è pur sempre una forma di diserzione.
Anche oggi l’indifferenza al bene comune, in questo continuo ripiegamento individualistico, può essere una tentazione. Ma cedervi è diserzione. Da cittadini e da uomini.
Si va all’adunata non per la nostalgia di incontrarsi, ma per la disponibilità ad essere protagonisti dentro il tempo in cui ci è dato di vivere. Facendo quello che uno sa e può fare per il bene degli altri, poco o tanto che sia, ma senza mettere le mani in tasca.
L’Italia tutta deve sapere che nel 2016 gli alpini hanno regalato al Paese l’equivalente di 70 milioni di euro, di cui 7 in contanti e 63 di ore lavorate gratuitamente per iniziative sociali.
Ma un’adunata di alpini, in congedo e in armi, è anche un colpo di spugna sui rifiuti culturali sotto cui è stato seppellito un articolo fondamentale della Costituzione, l’articolo 52, che recita esattamente così: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge”.
Era il 2005 quando certa politica, figlia matura di un Sessantotto che puntava a mettere fiori nei cannoni e a fare l’amore e non fare la guerra, decise che un anno di naja era un anno perso. La incartarono per bene quella polpetta, facendo credere che un disimpegno su questo fronte sarebbe stata una conquista del progresso.
Sono passati pochi anni da allora. La scienza e la tecnica hanno fatto passi da giganti ma, sul piano umano, nuove prigioni culturali e tecnologiche hanno ingabbiato l’animo e il futuro di tanti giovani. Divertirsi da morire, recitava uno slogan di qualche tempo fa, dove morire non sempre era solo una metafora.
È retorica chiedere di tornare a rendere obbligatoria una forma di servizio al Paese da parte dei giovani? È cultura di destra come sostiene qualcuno? Gli alpini credono che questo sia essenzialmente civiltà.