Il Fatto di Bruno Fasani
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Alpini a servizio degli altri per stare bene insieme

Facendo un’indagine tra chi partecipa ogni anno alle adunate degli alpini, per conoscere quale fosse stata quella che ricordavano maggiormente, una risposta tra le tante mi ha particolarmente colpito: «La più bella adunata è sempre l’ultima – mi ha rivelato con candore un alpino – ci arrivi pieno di entusiasmo e torni a casa con la voglia di partecipare a quella del prossimo anno».

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Facendo un’indagine tra chi partecipa ogni anno alle adunate degli alpini, per conoscere quale fosse stata quella che ricordavano maggiormente, una risposta tra le tante mi ha particolarmente colpito: «La più bella adunata è sempre l’ultima – mi ha rivelato con candore un alpino – ci arrivi pieno di entusiasmo e torni a casa con la voglia di partecipare a quella del prossimo anno».
Entusiasmo e desiderio. Due sostantivi che da soli raccontano un fenomeno unico nel proprio genere, come a sottolineare i colori della speranza e del sogno, fondamentali per dar benzina al motore della vita.
Non è retorica definire un’adunata alpina un avvenimento sociale. Mettere insieme quattrocento, cinquecentomila persone che vivono per tre giorni a contatto con la gente del luogo, in una impareggiabile gara di cordialità ed anche di goliardia, più che una pagina di folclore, rappresenta una straordinaria lezione di ecologia umana. Siamo avvezzi a parlare di un’altra ecologia, quella ambientale, climatica, spesso dimenticando che è solo da una sana convivenza che sarà possibile mettere in piedi politiche buone, economie sane, finanze senza ingordigie ed anche religioni senza fanatismi.
Asti, dove nei giorni scorsi si sono dati appuntamento gli alpini, non è stata da meno. Organizzazione sabauda, ambiente riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, una cittadina da visitare, una tradizione vinicola e culinaria da far invidia ai gourmet del mondo… tutto questo a far da cornice ad un avvenimento che voleva essere uno sguardo in avanti, ma anche un occhio al passato su cui calare la carta della gratitudine. Era il ’94 quando questa terra conobbe la tragedia dell’alluvione. E furono gli alpini, in quella circostanza, a seminare nel fango i semi della risurrezione di un territorio.
Del resto, sarebbe davvero riduttivo oltre che offensivo, confinare un’adunata nei luoghi comuni del fiasco de vin e del suo abuso. Una sana e innegabile goliardia non deve far dimenticare dati che non finiscono sotto i riflettori, ma che rimangono eloquenti nel loro linguaggio inequivocabile. Valga uno per tutti. Nel 2015 gli alpini hanno compiuto opere sociali per il valore di 62,5 milioni di euro, calcolati sia in offerte di denaro che in ore lavorative. La somma è comunque inferiore al reale, trattandosi di dati riferiti al 65% dei gruppi operanti sul territorio.
Riferimento che spiega l’alto tasso di gradimento di cui godono gli alpini nell’opinione pubblica. Fuori retorica, è nella loro capacità di stare insieme, di fare corpo, di seminare ottimismo e speranza che va cercata la ragione del loro successo e della loro preziosa utilità sociale. Esperti di umanità, senza attingerla dalla cultura accademica. Quell’umanità che si impara gomito a gomito, senza calcoli e opportunismi.

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